“La corsa dei prezzi non si ferma. Il tasso di inflazione resterà sopra il +2% almeno fino al 2025, e rischia di bruciare in tre anni 10 miliardi di euro di potere d’acquisto delle famiglie. Un calo che incide sulla crescita dei consumi e potrebbe depotenziare, di fatto, gli eventuali benefici della riforma fiscale in arrivo”. In attesa dei dati Istat di maggio, la cui pubblicazione è prevista per mercoledì prossimo, questo lo scenario tracciato da Confesercenti che avverte: “l’era della bassa inflazione sembra ormai del tutto terminata”.
Anche se il picco del 2022 appare episodico e determinato da fattori esterni come lo shock energetico, in prospettiva – secondo l’analisi di Confesercenti – torneremo a sperimentare “un’inflazione permanentemente più elevata di quella con cui ci eravamo abituati a convivere”. Confesercenti si aspetta un tasso di aumento dell’indice dei prezzi del +5,7% nell’anno corrente, del +3,8% nel 2024 e del +2,8% nel 2025. Solo nel 2026 si dovrebbe assestare sul +2%, la soglia comunemente considerata come obiettivo per la stabilità dei prezzi. Un punto d’arrivo, comunque, quadruplo rispetto al tasso medio di inflazione del +0,5% che si è registrato nel quadriennio 2016-2019, prima della pandemia.
Le conseguenze sul potere d’acquisto delle famiglie
Considerando anche la perdita già maturata nel 2022, la compressione subita dalla capacità di spesa delle famiglie ammonterebbe, – rileva Confesercenti – nella media 2022-2025, al 16% del reddito disponibile. Per avere un termine di confronto, si consideri che nel quadriennio 2016-2019, l’erosione di potere d’acquisto provocata dall’inflazione era stata in media dell1,5%. L’impatto inflazionistico sta inoltre rallentando il recupero dei livelli di consumo pre-pandemici, che nelle attuali condizioni non potrà essere completato prima del 2025. E si allontana sempre di più anche l’obiettivo di recuperare i livelli precedenti alla crisi finanziaria internazionale: se prendiamo a riferimento il valore dei consumi reali del 2007, a fine 2025 mancheranno ancora 18 miliardi. Questo perché, sempre a causa dell’alta inflazione, – spiega Confesercenti – i consumi aumenteranno in termini cumulati di appena il 2,1% nel triennio 2023-2025, ossia di un insoddisfacente 0,7% annuo.
Riforma fiscale deve tenere conto del “fiscal drag”
Un quadro che, per Confesercenti, impone un aggiustamento di rotta anche per l’agenda di politica economica, a partire dal fisco. “La necessità di salvaguardare il potere d’acquisto delle famiglie – sottolinea Confesercenti – impone di prestare attenzione anche al fenomeno del fiscal drag, che si determina quando l’aumento nominale dei redditi correlato all’inflazione porta automaticamente all’applicazione di aliquote più elevate e quindi all’incremento del prelievo fiscale”. Un assaggio lo si sta avendo con il taglio del cuneo fiscale predisposto dal governo, che in parte sarà eroso proprio dal fisco. Bisogna dunque rivedere la struttura delle aliquote per annullare gli effetti negativi del fiscal drag, o si rischia di depotenziare l’impulso che la riforma fiscale in preparazione potrebbe produrre, in condizioni di stabilità dei prezzi, sulla capacità di spesa delle famiglie.
Si svuota il carrello della spesa
Dall’analisi Coldiretti sugli effetti dell’inflazione nel primo trimestre del 2023 sulla base dei dati Istat sul commercio al dettaglio, emerge che il caro prezzi taglia del 4,7% le quantità di prodotti alimentari acquistate dagli italiani nel 2023 che sono però costretti però a spendere comunque il 7,7% in più a causa dei rincari determinati dalla crisi energetica. La situazione di difficoltà è resa evidente dal fatto che – sottolinea la Coldiretti – volano gli acquisti di cibo low cost con i discount alimentari che fanno segnare un balzo del +9,1% nel trimestre nelle vendite in valore, il più elevato tra gli scaffali del dettaglio. Proseguono quest’anno quindi le difficoltà che nel corso del 2022 hanno portato gli italiani a tagliare gli acquisti di frutta e verdura che sono crollati del 9% in quantità rispetto all’anno precedente, ai minimi da inizio secolo, secondo l’analisi di Coldiretti sulla base dei dati Cso Italy. Gli italiani – sottolinea la Coldiretti – hanno ridotto del 17% le quantità di pere, del 11% le arance e l’uva da tavola, dell’8% le pesche, le nettarine e i kiwi e del 5% le mele mentre tra gli ortaggi crollano del 24% gli acquisti di asparagi e del 20% quelli di radicchi. Il risultato è che con 5,5 miliardi di chili nel 2022 il consumo di frutta e verdura degli italiani è risultato di mezzo miliardo di chili inferiore a quello dell’anno precedente con preoccupanti effetti sulla salute dei cittadini.
La tendenza al risparmio
Spinte dai rincari le famiglie italiane – precisa la Coldiretti – orientano le proprie spese su canali a basso prezzo rinunciando anche alla qualità. Per difendersi dagli aumenti 8 italiani su 10 (81%) hanno preso l’abitudine di fare una lista ponderata degli acquisti da effettuare per mettere sotto controllo le spese d’impulso, secondo l’analisi Coldiretti/Censis che evidenzia come siano cambiati anche i luoghi della spesa con il 72% degli italiani che si reca e fa acquisti nei discount, mentre l’83% punta su prodotti in offerta, in promozione. Le famiglie infatti – sottolinea la Coldiretti – vanno a caccia dei prezzi più bassi anche facendo lo slalom nel punto vendita, cambiando negozio, supermercato o discount alla ricerca di promozioni per i diversi prodotti.
L’appello della Coldiretti: aumentare risorse Pnrr
“Occorre lavorare per accordi di filiera tra imprese agricole ed industriali con precisi obiettivi qualitativi e quantitativi e prezzi equi che non scendano mai sotto i costi di produzione come prevede la nuova legge di contrasto alle pratiche sleali e alle speculazioni” ha affermato il presidente della Coldiretti Ettore Prandini nel sottolineare l’esigenza di “aumentare le risorse destinate all’agroalimentare nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) sostenendo progetti di filiera per investimenti dalla pasta alla carne, dal latte all’olio, dalla frutta alla verdura con più di 50 proposte e migliaia di agricoltori, allevatori, imprese di trasformazione, università e centri di ricerca coinvolti”.
In Italia corsa dei prezzi slegata da aumento profitti
La tesi, supportata dalla Bce, secondo cui l’inflazione origina dai profitti delle aziende che avrebbero cavalcato con i loro prezzi di vendita i rincari di gas e di elettricità in maniera ben maggiore dei costi tale da ostacolarne la discesa già nel 2023 e stimolare un prolungamento della stagione di tassi di interessi più alti, – secondo il Centro Studi Confindustria – non si potrebbe applicare del tutto nella situazione italiana. “La dinamica dei profitti unitari in Italia è stata molto diversa. Per il totale economia la crescita è molto più bassa che nell’Eurozona: +3,5% nel 2022 rispetto al 2021. I settori che hanno registrato aumenti significativi – evidenzia il Csc – sono l’energetico-estrattivo e il commercio (+8,0%). Al contrario, in Italia hanno subito una flessione dei profitti unitari sia i servizi (-2,6%) che le costruzioni (-3,8%) e la manifattura ha visto un forte calo (-8,1% in media nel 2022), e questo nonostante il recupero nell’ultimo trimestre”, annotano gli economisti di viale dell’Astronomia”. La tesi dunque per cui l’aumento dei profitti ha alimentato l’inflazione non si applica pienamente all’Italia. I dati Istat sul markup manifatturiero – evidenzia il Csc – forniscono la stessa indicazione: caduta da inizio 2021, solo parziale recupero a fine 2022. Un’analisi recente della Commissione Ue, contenuta nell’ultimo Outlook, giunge a risultati analoghi: mostra che in tutti i paesi europei, nel 2022, i profitti unitari hanno contribuito molto al balzo dell’inflazione (cioè alla crescita del deflatore del Pil), tranne, proprio, che in Italia”, conclude il rapporto.