Tutto quello che c’è da sapere sul Co.Co.Co., il contratto di collaborazione

Il contratto di collaborazione coordinata e continuativa è un rapporto di lavoro parasubordinato. Scopri retribuzione, diritti e doveri del lavoratore con Co.Co.Co.

Quando si parla di Co.Co.Co. si parla di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa e, dunque, di lavoratori parasubordinati. Si tratta infatti di un contratto applicato a lavoratori che si trovano – in un certo senso – a metà strada tra il lavoro dipendente e il lavoro autonomo, motivo per cui tale tipologia di contratto può non essere di immediata comprensione.

I cosiddetti Co.Co.Co. lavorano infatti in piena autonomia operativa, non sono sottoposti ad alcun vincolo di subordinazione, ma hanno un rapporto unitario e continuativo con chi commissiona loro il lavoro. Sono dunque formalmente inseriti nell’organizzazione aziendale e possono operare all’interno del ciclo produttivo del committente, che ha il potere di coordinare l’attività del lavoratore con le esigenze dell’organizzazione aziendale.

Le caratteristiche del contratto di collaborazione coordinata e continuativa

Come riportato anche sul sito dell’Inps, il contratto di collaborazione coordinata e continuativa ha precise caratteristiche che il committente ha l’obbligo di rispettare. La prima è l’autonomia: è il lavoratore a decidere tempi e modalità d’esecuzione della commessa, sebbene possa impiegare – oltre o in alternativa ai mezzi suoi – quelli del committente. In secondo luogo, la continuità: questa non va ravvisata tanto nella reiterazione degli adempimenti, quanto nella permanenza del vincolo che lega le due parti. Se tale requisito manca, si parla infatti di collaborazione occasionale e non più di Co.Co.Co.

L’unico limite all’autonomia operativa del collaboratore è rappresentata dall’organizzazione aziendale esercitata dal committente, mentre la retribuzione deve essere corrisposta in forma periodica e prestabilita. Quali lavori possono essere oggetto del contratto di collaborazione? Se fino al 2001 la professione doveva avere un contenuto artistico-professionale, a partire da quella data anche le attività manuali e operative sono diventate potenziali oggetto di contratti Co.Co.Co., purché il rapporto lavorativo conservi il suo carattere autonomo.

Non è facilissimo comprendere però cosa si intenda per prestazione continuativa e personale (la prevalente personalità della prestazione è una delle caratteristiche del contratto di collaborazione): le prestazioni esclusivamente personali sono quelle svolte dal titolare del rapporto senza l’ausilio di altri soggetti, mentre il termine continuativo fa riferimento al ripetersi di una attività in un determinato arco di tempo, affinché il lavoratore raggiunga l’obiettivo della commessa.

Il regime fiscale, i contributi e i versamenti

Ai fini fiscali, i redditi percepiti dai Co.Co.Co. sono stati considerati redditi di lavoro autonomo fino al 31 dicembre 2000, redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente dall’1 gennaio 2001. Un’assimilazione, questa, che vale solo a fini – per l’appunto – fiscali: il regime giuridico da applicare è rimasto invece quello del lavoro autonomo, e non richiede dunque l’applicazione del principio di automaticità delle prestazioni.

Per quanto riguarda i contributi, se nel caso di un lavoratore autonomo è lui a pagare tasse e contributi sul compenso ricevuto sulla base del suo regime fiscale e previdenziale, in un contratto di collaborazione coordinata e continuativa questi sono per ⅔ a carico del committente e per ⅓ a carico del collaboratore. L’obbligo di versamento compete per intero al committente, che andrà a trattenere dalla busta paga anche la quota dovuta dal lavoratore.

L’orario di lavoro nel Co.Co.Co.

Ecco dunque la domanda cruciale: chi ha un contratto di collaborazione coordinata e continuativa è tenuto a rispettare un orario di lavoro? La risposta è no, ed è uno dei principali (e pochi) vantaggi di una collaborazione di questo tipo: il lavoratore Co.Co.Co. viene ripagato con un compenso mensile senza un orario di lavoro fisso o, meglio, secondo un’attività coordinata senza vincoli d’orario.

Il Jobs Act lo dice chiaramente: “Viene prevista l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato nell’ipotesi di rapporti di collaborazione che si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali e continuative, le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. Dunque, se il committente richiede che venga rispettato un orario di lavoro, il lavoratore non sarà più un collaboratore ma un dipendente.

Un contratto di Co.Co.Co. stabilisce un determinato compenso mensile per una determinata prestazione, e il committente è tenuto a corrisponderlo indipendentemente da quando la prestazione sia stata erogata e in quanto tempo; se al lavoratore è richiesta invece la presenza in sede per un certo numero di giorni o di ore, si parla di contratto di tipo subordinato. Perché è proprio questo il senso di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa: permettere al lavoratore di organizzare in autonomia la propria attività, senza subire imposizioni da parte del committente.

Co.Co.Co.: cosa dice la Legge

Uno dei motivi per cui il contratto di collaborazione coordinata e continuativa è considerato una sorta di “contratto di serie b” è data dal fatto che tale contratto non ha mai avuto una normativa di riferimento che ne regolasse forma e contenuti. Le uniche norme esistenti disciplinano infatti solo le questioni di carattere processuale, equiparandolo – a livello di disciplina processuale – al lavoro subordinato.

Non ha quindi, un contratto Co.Co.Co., una forma o dei contenuti minimi da rispettare. Tuttavia, in genere contiene almeno: le generalità dell’azienda committente e del collaboratore; il tempo di esecuzione (con un termine massimo, o a tempo indeterminato); il recesso che, secondo quanto stabilito dal Jobs Act, è nullo senza un congruo preavviso a favore del collaboratore; il compenso per il lavoratore con le modalità di erogazione e le norme sugli eventuali rimborsi spese; l’attività e i servizi che il collaboratore si impegna a realizzare; una clausola sulla privacy e una sulla riservatezza.

Ultimo a pronunciarsi sul tema del contratto di collaborazione coordinata e continuativa è stato il Jobs Act. Secondo quanto si legge, quando la collaborazione è prevalentemente personale e continuativa ed è il committente a definire luoghi e tempi di lavoro, si parla di lavoro subordinato e non di Co.Co.Co. E, dunque, l’azienda è tenuta a riconoscere il lavoratore quanto la legge stabilisce per i dipendenti: orario di lavoro, ferie, permessi, diritti sindacali, tutela della salute e della sicurezza, paga oraria sulla base del contratto nazionale di categoria, mansioni, contributi previdenziali e assistenziali e via dicendo.

Le eccezioni all’applicazione automatica del lavoro subordinato

Ci sono però casi in cui l’applicazione automatica della disciplina del lavoro subordinato è esclusa. E sono: le collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è richiesta l’iscrizione ad un albo (avvocati, ingegneri, architetti ecc.); le collaborazioni per cui i contratti nazionali prevedono specifiche discipline per il trattamento economico e normativo; le attività prestate dai componenti degli organi di controllo e amministrazione delle società (amministratori, sindaci).

E, ancora, sono escluse: le attività prestate nell’esercizio della loro funzione da membri di collegi e commissioni; le collaborazioni rese a fini istituzionali in favore di associazioni e società sportive dilettantistiche, affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI; le collaborazioni prestate nell’ambito della produzione e della realizzazione di spettacoli di fondazioni lirico-sinfoniche; le collaborazioni degli operatori che prestano attività svolte dal corpo nazionale di soccorso alpino e speleologico.

I Co.Co.Co. e il Jobs Act

Quando il Jobs Act è stato emanato, diversi sono i cambiamenti che il mondo dei Co.Co.Co. ha vissuto. In primis, è stato abolito il mini Co.Co.Co., contratto di lavoro coordinato e continuativo occasionale dalla durata complessiva di 30 giorni (in un anno) ed entro un limite di 5.000 euro. Allo stesso modo sono stati aboliti i contratti a progetto, i cosiddetti Co.Co.Pro.

Introdotta è stata invece la dis-coll, indennità di disoccupazione che spetta ai Co.Co.Co. che abbiano perduto non per propria volontà la loro occupazione, e che può essere richiesta anche da assegnisti e dottorandi di ricerca con borsa di studio. Per richiederla occorre essere iscritti alla Gestione Separata dell’INPS, avere uno stato di disoccupazione e almeno 3 mesi di contribuzione nel periodo compreso tra l’1 gennaio dell’anno civile precedente l’evento di disoccupazione e l’evento stesso.

Per il 2019, tale indennità di disoccupazione ha un importo mensile che non può eccedere i 1.328,76 euro e una durata massima di 6 mesi. Sono esclusi: i collaboratori titolari di pensione, i professionisti con partita IVA, gli amministratori e i sindaci, i revisori di società, le associazioni e gli altri enti con o senza personalità giuridica.

Il calcolo della dis-coll viene effettuato sulla base del reddito mensile del richiedente, che si ottiene dividendo il reddito imponibile ai fini previdenziali risultante dal versamento dei contributi effettuati (derivanti dai rapporti di collaborazione in relazione ai quali è riconosciuto il diritto all’indennità, relativo all’anno in cui si è verificata la cessazione dal rapporto di lavoro e all’anno civile precedente) per il numero di mesi di contribuzione o frazione di essi, ovvero sia i mesi o le frazioni di mese di durata del rapporto di collaborazione.