Referendum licenziamenti: 3 casi reali per capire cosa votare

Referendum 8-9 giugno, cosa cambia per i licenziamenti illegittimi? Gli effetti dell'abrogazione del Jobs Act e chiarimenti sui casi reali

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

Pubblicato: 23 Maggio 2025 09:30

 

Questo articolo fa parte di un ciclo dedicato al referendum 2025, che ha l’obiettivo di illustrare in modo chiaro e documentato le posizioni a favore e contro i quesiti, nonché gli scenari in caso di raggiungimento del quorum. QuiFinanza mantiene una linea editoriale imparziale e si impegna a fornire un’informazione completa e obiettiva, senza sostenere alcuna posizione politica o ideologica.

L’8 e il 9 giugno 2025 si vota al referendum abrogativo con 5 quesiti, di cui 4 riguardanti il lavoro e uno la cittadinanza. Chiedono ai cittadini di esprimersi sulla possibile cancellazione delle norme attuali. Uno di questi, considerando il rilievo sociale per lavoratori e famiglie, merita un approfondimento. Si tratta della tutela contro i licenziamenti illegittimi, oggi strutturata nell’ambito del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti di cui al Jobs Act.

Sarà modificata con un ritorno al passato? Oppure le regole resteranno le stesse anche dopo il referendum? In attesa di scoprirlo con l’esito della consultazione che, vale la pena ricordarlo, ha anzitutto bisogno di un quorum per potersi dire valida, vediamo insieme alcuni casi pratici che vogliono stimolare la riflessione personale e le valutazioni da fare prima di recarsi alle urne a esprimere un o un No.

Cosa chiede il referendum e cosa bisogna votare

Il quesito referendario che qui interessa ha a oggetto la cancellazione del d. lgs. 23/2015, attuativo del Jobs Act introdotto una decina di anni fa:

  • votare significherà ripristinare la possibilità di reintegrazione del dipendente nel suo posto di lavoro. E dunque applicare l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori nella versione della legge 92/2012, la riforma Fornero.
  • votare No vorrà dire mantenere le regole odierne, ossia il contratto a tutele crescenti per gli assunti dal 7 marzo 2015.

Oggi, non c’è diritto al reintegro salvo i casi di licenziamento discriminatorio o nullo (ad es. per matrimonio, maternità, in forma orale, per iscrizione al sindacato, motivi religiosi o politici), e si assegna, a compensazione, un indennizzo economico crescente in base all’anzianità di servizio.

Caso 1: un lavoratore licenziato ingiustamente non può tornare in azienda

Per capire meglio cosa può cambiare con il referendum sui licenziamenti illegittimi, pensiamo al classico caso del dipendente licenziato ingiustamente, o illegittimamente per usare il linguaggio degli avvocati, in questi ultimi anni e, quindi, con le regole attuali del Jobs Act, valevoli per le aziende con più di 15 dipendenti e per coloro che sono stati assunti dal 7 marzo 2015.

Anche se licenziato disciplinarmente ma senza motivo, può beneficiare di un ristoro economico senza poter tornare sul posto di lavoro.

Il lavoratore non potrebbe comunque cambiare l’esito della sua esperienza lavorativa, perché l’eventuale abrogazione per referendum – in linea generale – non ha effetto retroattivo.

Tuttavia se vincesse il , lo stesso lavoratore potrebbe nuovamente allargare le maglie della tutela reintegratoria per futuri licenziamenti illegittimi e anche analoghi al suo – ferma restando la tutela con il solo indennizzo economico per licenziamenti per giustificato motivo oggettivo ritenuti illegittimi dal giudice.

Il sistema attuale, in cui prevale la logica dell‘indennizzo, è complessivamente più veloce, flessibile e chiaro ed è pur vero che, sul piano pratico, il reintegro potrebbe creare tensioni nel team di lavoro.

Al contempo mantenere il Jobs Act potrebbe essere d’incentivo per le assunzioni a tempo indeterminato, essendoci meno vincoli per le aziende. Di diverso avviso sono i sindacati, che spingono per la cancellazione delle norme vigenti.

Caso 2: lavoratrice reintegrata prima del Jobs Act grazie all’art. 18

Pensiamo poi a chi ha ritrovato il suo posto di lavoro grazie all’art. 18, ma prima dell’entrata in vigore delle regole attuative del Jobs Act, ovvero nella fase intermedia della riforma Fornero. Ebbene, se ci si chiede che cosa è successo in seguito, la risposta è che lo scenario è cambiato drasticamente.

Un esempio pratico potrebbe essere quello della dipendente di un’azienda con 25 dipendenti, licenziata nel 2014 (post legge 92/2012 ma pre d. lgs. 23/2015) per una asserita crisi d’impresa.

In tribunale il giudice accertava che non c’era alcuna difficoltà economica e che i motivi usati erano pretestuosi. Applicandosi all’epoca la legge Fornero, la magistratura riconosceva, oltre al risarcimento, la reintegra nel posto di lavoro, in caso di motivi economici manifestamente assenti.

Questa conclusione è stata confermata dalla Corte Costituzionale con la sentenza 59/2021, la quale stabilisce l’obbligatorietà, e non la mera facoltà, di reintegra, disposta dal giudice, in tutti i casi in cui sua accertata la totale infondatezza del motivo oggettivo.

Ebbene, con le regole del Jobs Act  se la stessa persona fosse stata assunta dal 7 marzo 2015 in poi e licenziata in seguito, non sarebbe tornata al lavoro, pur con un recesso aziendale del tutto infondato. La donna avrebbe perciò beneficiato della sola indennità economica.

Anche questo ci aiuta a capire quanto radicale sia stato il cambiamento previsto dal Jobs Act rispetto all’assetto della legge 92/2012 ed è pur vero che, con già la legge Fornero, l’art. 18 dello Statuto era già stato parzialmente ridimensionato, ma non cancellato.

Con una eventuale vittoria del , per i lavoratori dipendenti, assunti dopo il 2015, sarebbe ampliata la possibilità di ritornare al proprio posto di lavoro. Eventualmente concordando una più alta transazione monetaria da una posizione di maggior vantaggio ed evitando un logorante ritorno in azienda.

Caso 3: il dipendente ha accettato un’indennità, ma ha fatto causa

Nell’ottica di avere le idee un po’ più chiare in vista del referendum dell’8 e 9 giugno, c’è poi un altro caso pratico che merita qualche chiarimento. Pensiamo al lavoratore che ha detto sì al ristoro economico, accettando di non tornare in azienda ma chiedendo più soldi.

In linea generale, con le regole anteriori al Jobs Act per i licenziamenti illegittimi senza diritto alla reintegra, il lavoratore otteneva un’indennità economica fissa e commisurata all’anzianità di servizio fino a 24 mensilità.

Con il Jobs Act, invece, il contratto a tutele crescenti prevede un’indennità economica senza reintegra, anch’essa variabile e crescente con l’anzianità, ma potenzialmente più alta perché fino a 36 mensilità e calcolata in base a parametri più flessibili. Quindi oggi la decisione del giudice ha margini più ampi di apprezzamento.

Se, in questi ultimi anni, il lavoratore ha ottenuto una sentenza che ha riconosciuto un’indennità ritenuta troppo bassa (e senza reintegro), potrà provare a impugnare la sentenza o a chiedere un aumento del risarcimento, dimostrando ulteriori elementi di danno o contestando la decisione per violazione di legge o errore del giudice.

Ma la magistratura deciderà comunque la congruità dell’indennizzo secondo i criteri del Jobs Act, che prevede una forbice ampia ma limitata da massimali crescenti in base all’anzianità.

Qualora vinca il in questo quesito referendario, abrogando il Jobs Act e tornando alla disciplina pre-2015 (legge Fornero), l’indennizzo da richiedere e ottenere dovrà comunque rispettare i limiti e i criteri previsti dalla disciplina vigente al momento del licenziamento e della causa.