Dal Mar Rosso al Mar Nero: perché Houthi e Ucraina possono decidere il futuro del commercio mondiale

I tre fronti caldi della "guerra mondiale a pezzi" (Medio Oriente, Ucraina e Taiwan) rischiano di far collassare i mercati globali. Analisi degli effetti dei conflitti nel Mar Nero, nel Mar Rosso e nell'Indo-Pacifico

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Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

Lo avevamo già visto con la guerra in Ucraina e lo vediamo ancor di più col conflitto in Medio Oriente: il commercio globale è messo a durissima prova. Prima i prezzi record dell’energia e delle materie prime, poi l’impennata di costi e tempi per i trasporti e le merci che arrivano via mare (circa il 90% delle spedizioni totali). Una scure spaventosa, se si considera che i trasporti marittimi e la logistica valgono circa il 12% del Pil globale.

In questo senso le azioni ucraine e russe nel Mar Nero e gli attacchi degli Houthi dallo Yemen nel Mar Rosso minacciano drasticamente l’economia occidentale, in particolare europea. Con sullo sfondo il potenziale scontro tra Usa e Cina per Taiwan, che potrebbe davvero mettere in crisi dell’attuale globalizzazione, intesa come controllo delle rotte marittime (e dei cosiddetti “choke point”, i colli di bottiglia) da parte di Washington.

Gli effetti della guerra nel Mar Nero

Nella notte tra il 4 e il 5 marzo, le forze ucraine hanno colpito e affondato un pattugliatore della flotta russa del Mar Nero, il “Sergey Kotov”. Si tratta soltanto dell’ultimo di una serie di episodi nefasti per la proiezione di Mosca sulle acque, inaugurata dall’annientamento dell’incrociatore missilistico Moskva nell’aprile 2022. Il 14 febbraio di quest’anno, invece, la stessa sorte è toccata alla nave da sbarco anfibio classe Ropucha “Tsezar Kunikov”. La tattica asimmetrica di Kiev è sempre la stessa nei suoi raid marittimi al largo della Crimea: utilizzare droni navali di superficie suicidi (USV – Unmanned Surface Vehicle) per aggirare le difese russe e andare a segno.

Le unità navali russe sono di fatto bloccate nei porti della Crimea, principalmente a Sebastopoli. Gli attacchi ucraini impediscono infatti a Mosca di proiettarsi nel Mar Nero e, di conseguenza, nel Mediterraneo attraverso gli stretti della cooperante Turchia. La Russia, a sua volta, ha annesso unilateralmente la Crimea a punta a occupare l’intera fascia costiera meridionale ucraina per tagliare al Paese invaso lo sbocco sul mare. Risultato: stallo delle spedizioni commerciali marittime, anche degli indispensabili cereali. Al momento l’export di grano attraverso il Mar Nero non sembra tuttavia destare preoccupazione, essendo tornato vicino ai livelli prebellici e col costo dell’assicurazione del carico che è diminuito in modo significativo. Secondo gli analisti, però, basterebbe un’azione ostile da parte russa (definita “pirateria” dall’Ue) per bloccare nuovamente tutto. Considerando anche che gran parte del mare rivierasco è costellato di mine e che la loro rimozione richiede tempo e cautela.

A causa della chiusura verso Mar Nero e Occidente, la Russia ha naturalmente concentrato la sua attenzione commerciale verso l’Asia. Puntando in particolare sul corridoio nord-sud che proietta Mosca direttamente nel porto iraniano di Bandar Abbas, nel Golfo Persico, e in quello indiano di Mumbai. L’influenza di Mosca sulla galassia ex sovietica dell’Asia Centrale non sembra però più forte come un tempo. Come dimostra lo sviluppo della Trans-Caspian International Transport Route (Titr), chiamata anche Middle Corridor (“corridoio di mezzo”), che coinvolge i Paesi che aderiscono alle Nuove Vie della Seta, che rappresentano la strategia di controglobalizzazione cinese ai danni degli Usa. In questo elenco non compare la Russia. Per un motivo pratico, più che ideologico: Mosca sottopone a dazi doganali il transito di alcuni tipi di merce che viaggiano verso l’Europa lungo questa rotta. Ma un motivo ideologico c’è, eccome: la crescente insofferenza che i Paesi ex-Csi (Comunità degli Stati indipendenti post-sovietici) stanno dimostrando verso la Russia, in particolare l’Armenia. Corridoi commerciali terrestri come il Titr assumono sempre maggiore importanza alla luce della perdurante e profonda crisi del Mar Rosso.

Gli effetti della guerra nel Mar Rosso

Delle conseguenze della crisi del Mar Rosso, per reazione filo-iraniana yemenita nell’ambito del conflitto tra Israele e Hamas, abbiamo già parlato. Al di là della riduzione dei volumi commerciali, con l’Italia che rischia di perdere il 40% del suo flusso import-export e che ha già registrato prezzi in salita, a livello geopolitico la militarizzazione dello Stretto di Bab el-Mandeb potrebbe consegnare uno dei tratti di mare più strategici del mondo alla Cina.

Mentre infatti molte compagnie di navigazione occidentali si sono viste costrette a circumnavigare l’Africa per raggiungere i mercati europei, le società marittime cinesi hanno una sorta di lasciapassare nel Mar Rosso, frutto di un accordo con gli Houthi. I leader dei miliziani yemeniti hanno assicurato che non attaccheranno le navi associate a Cina o Russia, entrambe alleate dell’Iran in ottica anti-americana, “finché non avranno legami con Israele”. L’accresciuta proiezione di Pechino in Medio Oriente preoccupa naturalmente gli Usa e l’Ue. La Cina coltiva interessi stratosferici in quella zona di mondo, dalla quale importa circa la metà del suo petrolio greggio. Per non parlare dell’importanza cruciale del Canale di Suez, porta privilegiata dell’export del Dragone verso l’Europa. Una porta al momento più utilizzata rispetto alle Nuove Vie della Seta: il 60% circa delle esportazioni di Pechino passano infatti da Suez e rappresentano addirittura un decimo del traffico annuale complessivo registrato dal Canale egiziano.

I potenziali effetti di una guerra per Taiwan

L’Indo-Pacifico è sicuramente il fronte più strategico del pianeta, quello che davvero potrebbe ricongiungere i vari “pezzi” della guerra mondiale teorizzati da Papa Francesco e scatenare lo scontro decisivo tra Usa e Cina. Tutto verrebbe innescato da una guerra per Taiwan, difesa con immenso dispiegamento di mezzi da Washington nell’ottica di impedire a Pechino di proiettarsi in mare aperto. Il potenziale conflitto per l’ex Isola di Formosa porterebbe a sua volta al crollo del sistema economico globale, con un danno collettivo che Bloomberg ha quantificato nella somma mostruosa di 10 bilioni, cioè 10mila miliardi di dollari. Il 10% del Pil mondiale, in sostanza.

Le conseguenze economiche di un blocco navale dello Stretto di Taiwan sarebbero dunque notevolmente peggiori rispetto a quelle causate della “sola” guerra tra Israele e Hamas, che colpirebbero “appena” lo 0,2% del Pil globale, e anche rispetto agli effetti della pandemia Covid (6% del Pil globale). Paradossalmente, in caso di intervento diretto statunitense e conflitto aperto con la Cina, secondo Bloomberg le conseguenze sarebbero sempre tremende ma più contenute in ambito economico, anche se comunque tragiche dal punto di vista umano e politico: con la guerra convenzionale si perderebbero “soltanto” 5 bilioni di dollari.

Al di là dell’epocale sconvolgimento geopolitico, la guerra per Taiwan paralizzerebbe un settore strategico per le industrie e la tecnologia mondiali come quello dei semiconduttori. L’isola, attraverso il colosso Tsmc e altre grandi aziende, produce infatti ben il 92% di questi materiali più avanzati dell’intero pianeta. Il conflitto impedirebbe ovviamente l’export dei semiconduttori, ma si configurerebbe anche l’elevato pericolo che fabbriche e siti produttivi vengano colpiti, danneggiati o distrutti. O dalla Cina o dagli stessi Usa, per evitare che finiscano in mani nemiche. In un tale scenario, secondo il The Japan Times, il Pil di Taiwan potrebbe perdere il 40% fin dalle prime fasi di guerra, mentre quello della Cina si ridurrebbe quasi del 17%. Con inevitabili e gravi effetti anche sull’economia statunitense ed europea.