Attacchi Houthi, perché la crisi del Mar Rosso non ha (ancora) colpito l’energia

L'escalation tra ribelli yemeniti Houthi e il fronte Usa-Regno Unito nel Mar Rosso non ha messo in crisi il mercato del petrolio. Merito anche di "ammortizzatori" e della produzione di greggio americano

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Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

Un mese di attacchi da parte dei ribelli Houthi dallo Yemen contro le imbarcazioni in transito nel Mar Rosso hanno minacciato seriamente la stabilità del commercio globale. Nel tratto compreso tra lo Stretto di Bab el-Mandeb (a sud) e il Canale di Suez passa infatti il 12% del commercio mondiale, per un valore di 1,2 trilioni di dollari l’anno.

Le compagnie di navigazione, spaventate dai rischi dell’escalation tra fronte sciita filo-iraniano e fronte occidentale a difesa di Israele, hanno scelto di deviare la rotta, accettando i costi extra per circumnavigare l’Africa e giungere in Europa. La crisi del Mar Rosso non ha però colpito finora il mercato dell’energia, in particolare per quanto riguarda il petrolio. I motivi sono molteplici.

L’importanza degli stretti mediorientali per il mercato dell’energia

L’intera impalcatura dei mercati energetici mondiali si basa da decenni sulla sicurezza e sulla continuità dei flussi di idrocarburi attraverso i canali e i mari del Medio Oriente. Gran parte dell’energia che alimenta il mondo, sia sotto forma di petrolio greggio sia di gas naturale, proviene dalla regione mediorientale e transita attraverso choke point come Bab el-Mandeb e lo Stretto di Hormuz.

Come sottolineato da Foreing Policy, c’è stato un tempo in cui l’Iran minacciava con estrema efficacia l’Occidente, determinando l’aumento dei prezzi globali, “semplicemente” attaccando lo Stretto di Hormuz nel Golfo Persico. Sempre tramite gli Houthi yemeniti, Teheran colpì inoltre direttamente i principali impianti petroliferi dell’Arabia Saudita.

Oggi invece, nel mezzo di un conflitto regionale che si allarga e non risparmia attacchi effettivi e ripetuti alla navigazione commerciale, i mercati dell’energia non sembrano accusare davvero il colpo. “C’è una lista della spesa di titoli che, solo dieci anni fa, avrebbero mandato in shock il mercato, mentre oggi i prezzi non fluttuano quasi”, ha evidenziato Richard Bronze, co-fondatore della società di consulenza londinese Energy Aspects.

Come il mercato energetico ha retto l’urto del conflitto in Medio Oriente

La nuova escalation fra Israele e Hamas-Houthi, con tanto di risposte militari da parte di navi statunitensi e britanniche al largo dello Yemen, ha minacciato seriamente questo delicato e centrale equilibrio geopolitico. Ma il mercato del petrolio ha sorprendentemente retto, e anche alla grande. Il prezzo del greggio Brent (comunemente utilizzato per la raffinazione in gasolio e benzina) è in realtà inferiore al valore di inizio dicembre e si attesta a 78 dollari al barile), mentre la quotazione del WTI (West Texas Intermediate, di solito utilizzato per la raffinazione della benzina) si è mosso poco dalla fine di novembre e ruota intorno ai 73 dollari al barile.

Come si spiega una tale resistenza all’urto del conflitto? Innanzitutto bisogna precisare che lo Stretto di Bab el-Mandeb, la porta meridionale del Mar Rosso, è meno importante del già citato Stretto di Hormuz per quanto riguarda il trasporto di energia all’Occidente. Il primo è infatti un percorso comodo, che attraverso Suez giunge all’Europa, ma ha delle alternative; il secondo è invece una via irrinunciabile per le forniture di petrolio. Un altro “segreto” risiede nella stessa struttura del mercato petrolifero, che presenta “ammortizzatori” più numerosi ed efficaci di quanto ci si aspetti (intanto con la crisi del Canale di Suez gli italiani rischiano di spendere oltre 400 euro in più l’anno).

Lo abbiamo potuto verificare anche con la guerra tra Russia e Ucraina: con il taglio della produzione da parte dell’OPEC e il petrolio russo soggetto a sanzioni occidentali, il mondo intero si aspettava che l’offerta avrebbe incontrato grandi difficoltà a tenere il passo della domanda. Invece la produzione di petrolio ha registrato numeri record da parte di altri Paesi, in primis Stati Uniti, Brasile, Canada e Guyana. Lo stesso Iran, ancora bersaglio delle sanzioni americane, ha addirittura garantito circa mezzo milione di barili in più al giorno alla produzione globale.

Il ruolo della capacità produttiva inutilizzata

Il vero “superpotere” del mercato del petrolio è però uno solo: la cosiddetta capacità produttiva inutilizzata (“spare production capacity”). L’OPEC, il cartello dei produttori di petrolio, continuava a tagliare la propria produzione nel vano tentativo di sostenere i prezzi. Una strategia che non ha funzionato del tutto, ma che ha prodotto un effetto collaterale benefico: l’exploit della capacità produttiva inutilizzata, principalmente in capo all’Arabia Saudita, capace se necessario di produrre circa 5 milioni di barili di greggio al giorno. Una quantità enorme, se paragonata allo stesso valore che Riad registrava nel 2008, anno in cui il petrolio raggiunse vette di prezzo inaudite.

Nei casi di tensioni geopolitiche o conflitti internazionali, la capacità produttiva inutilizzata rappresenta dunquer un enorme ammortizzatore che riduce i rischi relativi all’offerta. A concorrere alla tenuta del mercato energetico è stata anche il fatto che la domanda globale di greggio è stata meno consistente del previsto, soprattutto verso la fine del 2023. Nel suo ultimo report sul mercato petrolifero, l’Agenzia Internazionale per l’Energia prevede che la tendenza continuerà con “una sana crescita dell’offerta” durante l’anno, “parallelamente a una crescita della domanda che sarà la metà di quella del 2023 a causa di fattori economici sfavorevoli e contingenze ambientali”.

Infine bisogna considerare che gli attacchi da parte degli Houthi, per quanto disastrosa per compagnie di navigazione commerciale come Maersk costrette a deviare la rotta delle portacontainer, non hanno finora colpito le petroliere o gli impianti di produzione di greggio. C’è un motivo preciso anche in questo caso: l’accordo di tregua tra Arabia Saudita e Iran, mediato dalla Cina, che ha salvaguardato alcuni degli impianti petroliferi più importanti del mondo tenendoli fuori dalla linea di fuoco. A differenza del 2019, quando i droni iraniani presero di mira due grandi impianti di lavorazione del greggio in territorio saudita.

Il ruolo energetico degli Stati Uniti

Oltre a rappresentare l’egemone globale e pertanto la guida della coalizione direttamente coinvolta a difesa di Israele e contro l’Iran, gli Usa hanno cambiato le carte sul tavolo del mercato energetico anche con l’accresciuta produzione di petrolio, che attualmente supera i 13 milioni di barili al giorno. Tradotto: un barile su otto, nel mondo, è ormai prodotto su suolo americano.

Si tratta di un trend in aumento, ridimensionando l’importanza di quelle rotte che fino a qualche tempo fa erano vitali e insostituibili per l’Europa e gli stessi Stati Uniti. Gli analisti mettono però in guardia da ulteriori rischi di escalation in Medio Oriente. Gli sforzi militari di Washington nel rispondere ai ribelli Houthi fa crescere il rischio di attacchi diretti dallo Yemen contro petroliere e infrastrutture energetiche.