Israele-Hamas, guerra nella guerra: Usa e Iran arriveranno al conflitto aperto?

La tensione crescente in Medio Oriente e i continui attacchi a Gaza e nel Mar Rosso mettono sempre più pressione su Usa e Iran, che gestiscono il conflitto per procura. E che potrebbero arrivare alla guerra aperta

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Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

Mentre il Qatar e i mediatori occidentali tentano di apparecchiare il tavolo dei negoziati tra Israele e Hamas, lo Stato ebraico continua a bombardare i civili nella Striscia di Gaza, perfino quando questi sono in fila per gli aiuti alimentari e umanitari. In un territorio svuotato e devastato, ridotto a fame e macerie, molte famiglie per sopravvivere mangiano cibo per animali e bevono acqua contaminata.

Come la guerra in Ucraina, anche quella in Medio Oriente rappresenta il sintomo locale di un conflitto più ampio che vede contrapposti il blocco euro-atlantico a guida Usa e la variopinta fazione anti-occidentale, che raccoglie la maggior parte della popolazione mondiale. Nel caso mediorientale, il grande vero avversario degli Stati Uniti è l’Iran. Il supporto ai gruppi paramilitari regionali (Hamas a Gaza, Houthi in Yemen, Hezbollah in Libano) fa parte dell’agenda di Teheran di distruggere la normalizzazione dei rapporti tra Israele e monarchie arabe. La tensione crescente nell’area tra Mar Rosso e Mediterraneo minaccia di condurre i due imperi allo scontro diretto. Succederà davvero?

L’Iran non vuole rischiare una guerra diretta contro Israele (e Usa)

Diciamolo subito fuori dai denti: con ogni probabilità l’Iran non cercherà un’escalation affrontando direttamente Israele e gli Stati Uniti dal punto di vista militare. La guerra per procura affidata alle fazioni islamiste e fondamentaliste del cosiddetto Asse della Resistenza garantisce Teheran un duplice effetto:

  • elevare la propria immagine all’interno del mondo musulmano, intestandosi la difesa concreta della causa palestinese e contrastando così il panarabismo saudita;
  • mostrare la debolezza difensiva di Israele, l’unica grande potenza nucleare del Medio Oriente che si era proposta come garante della sicurezza dell’intera Penisola Araba.

In questo modo Teheran vuole mostrare a tutti quei Paesi che avevano siglato o voleva siglare i rapporti di normalizzazione politica e riconoscimento reciproco che lo Stato ebraico non è poi così forte come si credeva. L’Iran ha colto così al volo l’occasione della debolezza israeliana per rilanciare la propria influenza in Medio e Vicino Oriente, dopo averla vista notevolmente compromessa per aver salvato il regime autocratico di Bashar al-Assad in Siria dalle rivolte popolari.

L’intento primario della potenza persiana non è dunque quello di scatenare una guerra regionale, quanto piuttosto di indebolire Israele con una guerra asimettrica attraverso l’azione di milizie paramilitari che, nel caso di Hezbollah, hanno anche forze e risorse pari a quelle di un grande esercito nazionale. Un altro obiettivo parallelo consiste nel compromettere la capacità diplomatica degli Stati Uniti. In questo senso il leader supremo dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, ha rivolto due messaggi forti e chiari alla sua collettività: l’America è complice e addirittura fautrice della guerra di Israele contro Hamas; i Paesi musulmani dovrebbero tagliare ogni legame con lo Stato ebraico. In che modo? Operando ad esempio un boicottaggio economico, come richiesto dal ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian durante una visita in Turchia, altra potenza dell’area in calcolato bilico tra Oriente e Occidente. Se Teheran dovesse uscire diplomaticamente più forte da questa fase del conflitto, allora potrebbe davvero vincere la sua sfida chiave in politica estera: la risoluzione finale del decennale stallo nucleare con l’Occidente e il resto del mondo. E, di conseguenza, la revoca del regime di sanzioni che imbriglia economicamente l’Iran.

La posizione occidentale è descritta dai funzionari iraniani come unilaterale e fondata su un’egemonia biecamente mascherata da difesa di valori occidentali per niente riconosciuti dalla maggior parte del mondo. In questa missione, i più importanti alleati dell’Iran sono Cina e Russia, altrettanto contente di indebolire la potenza occidentale nel teatro mediorientale. La situazione potrebbe tuttavia precipitare rapidamente. Se gli Usa decidessero di intervenire direttamente contro l’Asse della Resistenza filo-iraniano, come ad esempio sta cominciando ad avvenire con la missione Aspides comandata dall’Italia contro gli Houthi nel Mar Rosso. Alcuni funzionari iraniani vedono un tale scenario come altamente probabile. L’ex ministro Mohammad Javad Zarif, ad esempio, è arrivato al punto di affermare che “Israele vuole intrappolare l’Iran in una guerra contro gli Stati Uniti”. Frangente che potrebbe rivelarsi disastroso per la potenza persiana, attualmente alle prese con una grave crisi economica e un’emigrazione record.

I rischi di escalation tra Iran e Usa

La possibilità di scontro diretto tra Iran e Usa non può dunque essere esclusa a priori. Già il 28 gennaio tale rischio è parso reale, a causa di un attacco tramite droni da parte di un gruppo filo-iraniano su una base militare americana in Giordania, che ha ucciso tre soldati statunitensi e ne ha feriti altri 40. Se solo l’avessero voluto, gli Usa avrebbero potuto sfruttare quell’occasione per intervenire direttamente contro l’Iran. Ma semplicemente non ne hanno intenzione e hanno dunque derubricato l’episodio a “tragico esempio” dei rischi di lasciare le proprie forze schierate in tutto il mondo, a volte senza una giustificazione tattica sufficiente. Attualmente gli Stati Uniti contano circa 2.500 soldati in Iraq, per addestrare l’esercito locale, altri 900 in Siria e poche centinaia in Giordania, sulla carta per scongiurare un ritorno dell’Isis.

Lo stesso Joe Biden ha affermato chiaramente di voler contrastare Teheran senza provocare una guerra su vasta scala. E infatti gli attacchi di ritorsione all’attacco fondamentalista del 28 gennaio hanno preso di mira strutture di gruppi islamisti al di fuori dell’Iran, e cioè in Iraq e Siria. Allo stesso modo, in maniera speculare, per Teheran gli attacchi o i contrattacchi statunitensi sono un esempio dei pericoli derivanti dalla gestione di milizie per procura su più fronti. Sostenere un tale sforzo multipolare, disperdendo le forze invece che concentrarle e dando vita a “scaramucce” piuttosto che attacchi massicci, non può che avere un obiettivo: scongiurare un conflitto ampio e diretto.

Per entrambi gli imperi, in parole povere, gli eventi bellici e diplomatici minacciano costantemente di accendere una miccia altamente esplosiva. Lo stesso segretario di Stato americano, Antony Blinken, lo ha certificato quando ha suggerito “che non vedevamo una situazione così pericolosa come quella attuale almeno dal 1973, e probabilmente da prima ancora”. Le difficoltà americane vanno però oltre l’Iran e il Medio Oriente. Nel tentativo di restare l’egemone globale, Washington sono impegnati su più fronti rischiando di fatto una guerra imminente in ognuno di essi.