Rubare sul posto di lavoro può costare il posto di lavoro? La risposta almeno a prima vista non può che essere un sì, ma attenzione a come provare il grave comportamento del dipendente, perché altrimenti il rischio concreto – per il datore di lavoro – è vedersi dichiarata l’illegittimità del licenziamento con sentenza della magistratura.
Lo ricorda un recente caso che ha visto coinvolta la responsabile di uno showroom di un noto marchio di moda che, allontanata dall’azienda per aver sottratto alcuni prodotti, è riuscita a ribaltare gli esiti del procedimento disciplinare interno. Vediamo insieme la sentenza 10822/2025 della Cassazione, perché contiene interessanti indicazioni per tutti i datori di lavoro.
Indice
La vicenda e l’importanza di raccogliere prove nel rispetto della legge vigente
La responsabile di un punto vendita – un quadro ai sensi del Ccnl tessile abbigliamento e moda – era stata licenziata per l’accusa di aver rubato alcuni prodotti. Le immagini del suo comportamento erano state utilizzate come prova, grazie alla registrazione effettuata dagli impianti audiovisivi presenti nei locali commerciali.
Sia in primo che in secondo grado, i giudici accolsero le difese della donna, che nel frattempo contestò la correttezza del licenziamento disciplinare. Secondo le sue difese, infatti, le immagini – come anche l’indagine condotta da un suo collega – erano state realizzate e raccolte senza il rispetto della normativa vigente in materia. Violando lo Statuto dei lavoratori e le norme sulla tutela della privacy (oggi aggiornate alla luce del GDPR), le prove non potevano essere utilizzate per punirla con la sanzione espulsiva.
A tutela dei diritti dei lavoratori c’è – infatti – il sistema di garanzie stabilito dalla stessa legge 300/1970, secondo cui occorre un “fondato sospetto” di reato per licenziare qualcuno. Non basta cioè il mero convincimento soggettivo del collega o una generica curiosità circa un comportamento “anomalo” del dipendente. E se in tribunale si stabilisce che non c’è alcun fondato sospetto, i controlli difensivi comunque disposti dal datore di lavoro sono ingiustificati.
Per questo l’azienda datrice è stata condannata alla reintegra e al versamento di un’indennità risarcitoria pari alle retribuzioni spettanti dal giorno del licenziamento a quello dell’effettivo ritorno in ufficio (oltre interessi, rivalutazione e spese di lite). Ma ne seguì il ricorso in Cassazione da parte della società datrice di lavoro.
I chiarimenti della Cassazione sul fondato sospetto di illecito e sugli obblighi dell’azienda
I giudici di legittimità hanno confermato l’infondatezza del licenziamento, evidenziando che anche la corte d’appello aveva ritenuto il comportamento del collega basato esclusivamente su un “puro convincimento soggettivo”. Egli, dopo aver visionato le riprese telematiche e notato la presenza della lavoratrice nello showroom, si era introdotto nel suo ufficio durante la pausa pranzo – approfittando della sua assenza – per indagare autonomamente, perquisirle la borsa e trovare traccia di eventuali illeciti.
Questa attività di “indagine” compiuta individualmente dal collega accusatore palesava – dice la Cassazione – la chiara violazione della disciplina a tutela della riservatezza e della dignità della lavoratrice, tramite un illecito controllo su un bene personale, quale è la borsa.
In particolare, la costante giurisprudenza indica che il fondato sospetto che giustifica il controllo difensivo, cd. in senso stretto, è basato su indizi materiali e riconoscibili circa la commissione dell’illecito da parte dello stesso lavoratore, e non l’inadempimento degli obblighi derivanti dalla prestazione lavorativa. Inoltre, la collocazione temporale di questi indizi deve consentire di dimostrare che il controllo sia stato compiuto solo successivamente all’insorgenza del fondato sospetto.
Nella sentenza n. 10822 la Corte sottolinea – quindi – che spetta al datore l’obbligo di provare le specifiche circostanze che l’hanno indotto ad attivare il controllo tecnologico:
sia perché solo il predetto sospetto consente l’azione datoriale fuori del perimetro di applicazione diretta dell’art. 4 st. lav., sia perché, in via generale, incombe sul datore, ex art. 5 l. n. 604 del 1966, la dimostrazione del complesso degli elementi che giustificano il licenziamento (Cass. n. 118168/2023).
L’assenza di informativa sull’utilizzo degli strumenti per i controlli difensivi
Non solo. In riferimento alle riprese degli impianti audiovisivi, seppur usate per i controlli difensivi del patrimonio aziendale, i giudici di merito evidenziavano la mancanza di prova circa l’adeguata e preventiva informazione sulle modalità d’uso degli strumenti per i controlli a distanza, nel rispetto di quanto disposto dal Codice in materia di protezione dei dati personali.
Anche su questo punto, la Suprema Corte spiega che sia in primo che in secondo grado, la magistratura aveva correttamente concluso per l’inutilizzabilità delle immagini e delle riprese per giustificare il licenziamento. E inutilizzabile era ed è anche il materiale probatorio scaturente dalle stesse riprese, comprese le deposizioni testimoniali basate su elementi ottenuti in violazione delle regole di tutela della riservatezza del lavoratore.
Parallelamente, è violazione della disciplina a tutela della riservatezza e della dignità del lavoratore l’indagine condotta attraverso le citate perquisizioni illecite su beni personali del dipendente, configurandosi questa condotta come controllo difensivo illegittimo che rende inutilizzabili le prove così acquisite.
La Corte di Cassazione ha così affermato l’inammissibilità del ricorso presentato dalla società, ribadendo l’esito del giudizio di appello e l’impossibilità di utilizzare il materiale di prova per licenziare la lavoratrice, in quanto ottenuto in violazione della legge.
Che cosa cambia
La sentenza dei giudici di piazza Cavour ricorda a tutti i datori di lavoro che, in tema di licenziamento disciplinare per giusta causa, chi voglia avvalersi di controlli tecnologici difensivi per provare reati commessi dal dipendente deve sempre rispettare rigorosamente gli oneri probatori previsti dalla normativa vigente, con particolare riferimento alle disposizioni di cui all’art. 4 della legge 300/1970 e al d. lgs. n. 196 del 2003.
Perciò, in una causa di licenziamento per presunta sottrazione di beni aziendali, non sono utilizzabili le riprese audiovisive realizzate in violazione degli obblighi visti sopra. E, in linea generale, queste conclusioni valgono per tutti gli illeciti penali che ledono il patrimonio, la fiducia o l’organizzazione aziendale, come ad es. il danneggiamento o l’accesso abusivo a sistemi informatici.
Il mancato assolvimento dell’onere della prova della giusta causa di licenziamento, da parte dell’azienda, determina l’illegittimità dello stesso recesso disciplinare con conseguente diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno.