Israele teme un attacco diretto e imminente dall’Iran: può succedere davvero?

I media di tutto il mondo titolano sulla vendetta promessa da Teheran a Israele per l'attacco all'ambasciata iraniana a Damasco. Prima delle minacce ci sono però gli imperativi strategici e l'analisi delle potenziali conseguenze

Foto di Maurizio Perriello

Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

L’attacco da parte di Israele contro l’ambasciata iraniana a Damasco ha superato l’ennesima linea rossa del conflitto in Medio Oriente. Un conflitto che contrappone sulla carta lo Stato ebraico e Hamas per il controllo della Striscia di Gaza, ma che in realtà è molto più ampio e riguarda anche il Vicino Oriente. Con appunto l’Iran come grande potenza rivale di Israele.

Nel raid compiuto il primo aprile a Damasco, tra gli altri è stato ucciso anche il generale Mohammad Reza Zahedi, comandante di un’unità d’élite dei Guardiani della Rivoluzione responsabile delle operazioni esterne dell’Iran e principale referente delle Forze Quds in Siria e in Libano. Un colpo al cuore della potenza di Teheran, giudicato intollerabile dalla Guida Suprema della Repubblica Islamica. Da qui la minaccia di un attacco diretto e imminente contro Israele, che ha innalzato il livello di allerta a livello globale e che ha di conseguenza spinto Tel Aviv a chiudere 30 ambasciate in giro per il mondo, compresa quella di Roma.

L’attacco di Israele in Siria e la minaccia di riposta diretta dell’Iran

Seppur non rivendicato ufficialmente, l’attacco a Damasco è ampiamente ascrivibile agli israeliani, che da anni colpiscono – senza assumersene poi pubblicamente la responsabilità – obiettivi e depositi di armi di gruppo filo-iraniani in territorio siriano. Una “campagna tra le guerre” in Siria, come l’hanno definita gli esperti di sicurezza, che ha cominciato a mettere nel mirino i principali leader militari della rete iraniana.

Anche in Libano, dove Israele ha ucciso alti comandanti di Hezbollah e almeno 150 combattenti in risposta a molteplici attacchi di droni e missili anticarro. Un modus operandi consolidato, dunque, che stavolta ha però alzato pericolosamente l’asticella della tensione e potrebbe provocare un serio e concreto allargamento del conflitto. Perché stavolta a essere colpita è stata la sede diplomatica ufficiale di un Paese membro delle Nazioni Unite, violando apertamente il diritto internazionale che giudica “inviolabili” ambasciate e consolati.

Proprio in un momento, per giunta, in cui il Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu ha adottato una risoluzione che chiede che lo Stato ebraico sia ritenuto responsabile di eventuali crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi a Gaza, dopo l’uccisione di sette operatori umanitari di una Ong attiva nella Striscia. Nella risoluzione si chiede inoltre il divieto di armi a Tel Aviv, anche se prima della votazione sono state segnalate spaccature tra i Paesi europei. Germania e Bulgaria, ad esempio, avevano dichiarato che avrebbero votato contro perché la risoluzione non condannava esplicitamente Hamas, anche se per contro condannava il lancio di razzi dalla Striscia e chiedeva il rilascio immediato degli ostaggi.

Il rappresentante israeliano, dal canto suo, ha abbandonato la sessione in segno di protesta, anche se la risoluzione non ha di per sé alcun valore legale o pratico. Ne ha invece uno politico e simbolico, dato che proviene dal principale organismo delle Nazioni Unite per i diritti umani e che, per questo motivo, aumenterà la pressione diplomatica su Israele affinché stemperi la sua ostilità verso i palestinesi.

“La vendetta è inevitabile, decideremo dove e quando scatenare la rappresaglia”, tuona l’Iran mettendo in guardia anche gli Usa di “stare lontani da Israele” se non vogliono “farsi male”. Il recente attacco israeliano alla sede del consolato iraniano a Damasco “è una sorta di follia e rappresenta il suicidio del regime sionista”, assicura il Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate iraniane Mohammad Bagheri, volato a Esfahan per il funerale del generale Reza Zahedi ma anche verosimilmente per riunire le Forze iraniane, che proprio nella città hanno il loro bunker operativo centrale.

“L’Iran risponderà senza dubbio all’attacco israeliano, la guerra è a un punto di svolta”, fa eco il leader degli Hezbollah libanesi, Hasan Nasrallah, in un discorso televisivo. Dagli Stati Uniti si moltiplicano intanto gli avvisi di allarme, col New York Times che cita due funzionari iraniani e afferma che le truppe iraniane sono “in massima allerta”. Per l’emittente Cbs, invece, Teheran aspetterà la fine del Ramadan per attaccare con droni e missili lo Stato ebraico.

L’Iran attaccherà direttamente Israele?

La domanda è pertinente, ma vale un milione di dollari. Di sicuro il raid israeliano ha scosso il tavolo del risiko mediorientale, mettendo l’Iran di fronte a un’offesa che può essere lavata solo col sangue. Finora Teheran ha evitato un attacco diretto al grande nemico Israele, costruendo appositamente attorno al Paese quell’Asse della Resistenza formato da milizie sciite, e dunque filo-iraniane, che condividono l’agenda anti-ebraica dell’impero persiano. Lo smacco subìto potrebbe far scattare la rappresaglia diretta iraniana, anche se finora lo scontro con Israele è stato delegato a Hamas, Hezbollah e Houthi.

Una “Mezzaluna sciita” messa su apposta per distruggere gli Accordi di Abramo e l’annessa normalizzazione dei rapporti fra Stato ebraico e monarchie arabe, in un momento percepito di profonda debolezza del governo Netanyahu. Considerando anche il fatto che l’Iran è impegnato con fronti caldi anche sul suo versante orientale, come hanno dimostrato i recenti scontri tra le Forze di sicurezza e i separatisti nella regione del Baluchistan, dove opera il gruppo fondamentalista sunnita Jaish al-Adl. E come dimostrano gli attacchi a Rask e Chabahar, sedi di infrastrutture militari strategiche e di un importante porto in cui sono convogliati notevoli investimenti da parte di India e Talebani afghani. Nella città santa sciita di Qom, infine, le forze di sicurezza iraniane hanno sventato un’infiltrazione di due terroristi poi finiti in manette, sospetti membri di quello stesso Isis-K che ha rivendicato la strage al teatro Crocus di Mosca. Gli scenari sulla risposta iraniana a Israele sono dunque sostanzialmente tre:

  • un attacco diretto di Teheran al territorio israeliano, utilizzando missili da crociera ma anche una grande quantità di droni molto avanzati e in grado di sfuggire alla contraerea, con conseguente escalation e guerra totale;
  • un inasprimento dei raid contro Israele, ma sempre attraverso l’Asse filo-iraniano formato dai clientes di Teheran: Hamas dalla Striscia di Gaza, Hezbollah dal Libano e Houthi dallo Yemen;
  • innalzamento della tensione con ad esempio il lancio di missili di altre milizie filo-iraniane, principalmente dall’Iraq, con vettori più moderni che vadano a bersagliare le Alture del Golan o la parte settentrionale del territorio israeliano.

Gli attentati diretti alle ambasciate israeliane sono dati per probabili dalle intelligence occidentali, anche se suona come un attacco “chiamato”. Il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, afferma che “lo stato di allerta non vuol dire panico. Il nostro nemico è stato attaccato duramente e ora vorrà rispondere. Noi dobbiamo tenerci pronti a qualunque scenario”. Il tavolo potrebbe però saltare ulteriormente e portare nuove fiammate. Hezbollah, in particolare, deve ancora scoprire tutte le sue carte. Dal punto di vista della potenza di fuoco e militare, è almeno 10 volte più forte di Hamas, che da solo sta dando filo da torcere a Tel Aviv, e molto più equipaggiato e pronto alla guerra dello stesso esercito libanese.

Gli Houthi, da parte loro, continuano imperterriti ad attaccare le spedizioni internazionali che attraversano il Mar Rosso. Le milizie appoggiate dall’Iran in Siria e Iraq prendono invece di mira le forze statunitensi stanziate nella regione, dalla Giordania al Kuwait e al Qatar. Infine, una voce “contraria”: il parlamentare iraniano Hossein Jalali sostiene che la guerra aperta a Israele non è nell’interesse del Paese, poiché è lo Stato ebraico che cerca di coinvolgere l’Iran in un conflitto diretto.

Cosa sta succedendo a Gaza e cosa ci vuole per il cessate il fuoco

Nel frattempo a Gaza prosegue una delle più grandi tragedie umane del nostro tempo. I civili continuano a morire sotto le bombe e di fame, con gli aiuti che si rivelano ancora una volta insufficienti e motivo di borsa nera e speculazioni disumane. Hamas rifiuta di fare marcia indietro e ribadisce le sue condizioni non negoziabili per giungere a un accordo per Gaza: “Cessate il fuoco permanente, ritiro completo dell’esercito israeliano dalla Striscia, ritorno degli sfollati, libertà di movimento e un serio accordo di scambio di ostaggi e prigionieri”. I miliziani hanno comunque accettato di inviare una delegazione per rinnovare i colloqui al Cairo nel fine settimana, anche se molto probabilmente si tratterà dell’ennesimo vuoto valzer negoziale.

Il ritorno dei palestinesi nel nord di Gaza sta dunque emergendo come uno dei nodi nelle trattative per un cessate il fuoco. L’amministrazione Biden sta premendo su Israele affinché permetta a un numero limitato di civili sfollati di tornare nel nord della Striscia. Secondo quanto riporta il Wall Street Journal, citando fonti arabe, lo Stato ebraico ritiene accettabile far tornare al nord circa 2mila persone al giorno durante la tregua, soprattutto donne e bambini, per un totale di 60mila persone. Da questo insieme sono esclusi quasi tutti gli uomini di età compresa fra i 18 e i 50 anni. Il ritorno dei civili nel nord della Striscia potrebbe scattare 10 giorni o due settimane dopo l’inizio del cessate il fuoco, secondo quanto anticipato dalle stesse fonti. Gli sfollati dovrebbero superare i check point israeliani prima di andare al nord, così da evitare che Hamas torni a infiltrarsi. I termini di questa proposta sono ritenuti inaccettabili da Hamas, che non vuole i posti di blocco israeliani e ritiene che le famiglie debbano restare unite.

La rivalità Israele-Iran: perché si è riaccesa la miccia in Medio Oriente

A sei mesi dal maxi attacco sferrato da Hamas il 7 ottobre, possiamo guardare alla crisi mediorientale con un occhio più freddo e asciutto. Gli Accordi di Abramo sono la ragione primaria per la quale l’Iran ha spinto Hamas ad attaccare Israele. Hamas ha sì una sua agenda, ma anche la mano lunga dell’Iran anche se dovrebbero essere nemici acerrimi: arabi sunniti i palestinesi da un lato, persiani e dunque sciiti gli iraniani dall’altro (che hanno scelto la confessione sciita proprio perché anti-arabi). L’agenda iraniana ha come obiettivo la distruzione degli Accordi di Abramo, voluti dagli Usa nel 2020 e benedetti bipartisan. Tanto da Donald Trump quanto da Joe Biden, a significare che il presidente americano non è che la punta di un iceberg fatto di apparati e di un Congresso che decidono tutte le questioni fondamentali negli Stati Uniti.

L’agenda di Washington era invece quella di divincolare gli americani dalla gestione del Medio Oriente e lasciare il contenimento dell’Iran a Israele. Israele che è l’unica potenza nucleare del Medio Oriente e soprattutto con capacità di risposta nucleare, il che non è automatico e scontato. Al contrario, ad esempio, della pur temutissima Corea del Nord, che possiede la bomba atomica ma che se attacca con armi nucleari scompare dalla faccia della Terra con tutta la sua capacità di lancio. Israele no, perché dispone di ordigni nucleari presenti sui suoi sottomarini altrettanto nucleari (di produzione tedesca) dispiegati nel Mediterraneo orientale.

Qui sta il motivo di fondo, sempiterno potremmo azzardare, per cui l’Iran non si azzarda ad attaccare direttamente Israele. Iran che, tra l’altro, non è mai riuscita a gestire né tantomeno vincere un conflitto diretto: nel 1979 si compie la Rivoluzione Islamica di Khomeini e l’Iran inizia la sua guerra contro l’Iraq, salvandosi quasi per il rotto della cuffia nonostante mezzi e capacità di gran lunga superiori. Come potrebbe riuscire dunque a distruggere gli Accordi di Abramo? Distruggendo Israele in maniera indiretta, umiliandone la tanto celebrata capacità difensiva armando Hamas. Per le stesse ragioni, Teheran non vuole un allargamento del conflitto, che invece potrebbe fare il gioco di Israele, il quale potrebbe attaccare l’Iran prima che sia troppo tardi. È ancora una volta la storia a fornirci la spiegazione: un Paese con capacità nucleare non è mai stato attaccato in una guerra massiccia e diretta sul suo territorio.

Il ragionamento di Israele è dunque quello di colpire l’Iran prima che sia Teheran ad attaccare. Ammesso che Teheran sia davvero a un passo dall’intervento diretto con l’atomica, come paventato dalle intelligence occidentali. Su questo punto c’è molta confusione, per non dire mistificazione: si pensa alle forze di intelligence come quasi a un’accademia delle cose militari, come a una fonte insuperabile o almeno affidabile di informazioni. È esattamente il contrario: le intelligence non danno notizie, ma le camuffano e le distorcono per l’interesse esclusivo della nazione. Ci sono forti dubbi anche sull’opportunità di Israele di attaccare l’Iran sul suo territorio, dove si è dimostrato fortissimo, anche in considerazione della netta superiorità demografica iraniana.