È stato un “tragico errore”, sostiene Israele. Le scuse, però, non sono più credibili. Dopo centinaia di migliaia di civili palestinesi, lo Stato ebraico ha preso di mira direttamente anche i cooperanti di una Ong attiva a Gaza: la World Central Kitchen (Wck). Il primo ministro Benjamin Netanyahu si è scusato pubblicamente, affermando che l’attacco non è stato intenzionale e che ci sono indagini in corso.
Come è potuto succedere? Certo, con tutte le bombe e i raid sulla Striscia, non era impossibile da prevedere l’ennesima tragedia. Israele sta intensificando i suoi attacchi nell’enclave palestinese perché ha fretta e ha paura. Fretta di chiudere il discorso bellico prima che si arrivi ai sempre più pressanti negoziati e paura di non riuscirci. Netanyahu è convinto che se vincerà sul campo e prenderà il controllo di Gaza, nessuno glielo potrà togliere. Neanche gli egemoni Stati Uniti. Le cose stanno davvero così?
Cos’è e cosa fa Wck, la Ong colpita da Israele a Gaza
La Ong è stata fondata nel 2010 dallo chef José Andrés e da sua moglie Patricia dopo il grave terremoto ad Haiti, per fornire aiuti alimentari ai sopravvissuti. La Wck ha sede negli Stati Uniti ed è tornata ad Haiti anche negli anni successivi, contribuendo a creare una scuola di cucina nel 2015. Oltre alle Nazioni Unite, la World Center Kitchen è l’organizzazione che distribuisce più aiuti umanitari nella Striscia. O, meglio, distribuiva, visto che i vertici hanno annunciato di aver immediatamente interrotto le proprie operazioni nel territorio mediorientale. Qui, dopo l’escalation del conflitto tra Israele e Hamas, la Ong ha contribuito alle consegne di cibo arrivando a fornire più di 32 milioni di pasti a marzo. Tra questi molti sono stati paracadutati nel territorio di Gaza tramite aerei.
Dopo l’incidente anche altri Paesi e altre Ong, come American Near East Refugee Aid, hanno annunciato la sospensione delle loro attività. Almeno finché non verrà fatta luce sull’accaduto e qualcuno in Israele venga punito per ciò che è successo. Una decisione che rischia inevitabilmente di gravare sulla già precaria assistenza alla popolazione palestinese. Oscar Camps, fondatore della Open Arms attiva a Gaza, ha ricordato che le organizzazioni non governative agiscono nella Striscia “perché soffrivamo per la morte dei civili; ora anche per il vuoto irreparabile che lascia la perdita dei nostri compagni della squadra del World Central Kitchen”.
La strage degli operatori a Gaza: cosa è successo
Nella prima notte di aprile un drone israeliano ha colpito tre veicoli del World Center Kitchen a Deir el-Balah, nel centro della Striscia, uccidendo sette cooperanti umanitari: tre britannici, un polacco, un’australiana, uno statunitense e un autista palestinese. L’attacco è avvenuto subito dopo che i tre mezzi avevano lasciato il deposito, dove erano stati scaricate più di 100 tonnellate di aiuti alimentari. Mentre il convoglio stava percorrendo il percorso ampiamente concordato, è scattato “l’ordine della sala operativa” di colpire. Dopo che è stata bersagliata la prima auto, i passeggeri hanno tentato di salire sulla seconda. Subito dopo è stata colpita anche questa, nonostante chi era a bordo avesse segnalato l’aggressione all’esercito. I superstiti hanno quindi trasferito loro stessi e i feriti nel terzo mezzo, venendo centrati però anche da un terzo missile. Per le sette vittime non c’è stato niente da fare. A centrare le tre auto sono dunque stati tre razzi sparati in rapida successione da un drone Hermes 450, nella presunzione che del gruppo dei 7 operatori facessero parte uno o più “terroristi armati”. La decisione di sparare sarebbe stata presa da un’unità israeliana a guardia del percorso.
Il “tragico errore” dell’uccisione dei sette operatori, come l’ha definito lo Stato ebraico, cozza già coi primi dettagli raccolti subito dopo l’accaduto: i tre mezzi avevano insegne sul tetto riconoscibili e si sono mossi lungo un percorso concordato con le Forze di difesa israeliane. L’episodio ha ovviamente generato un’ondata di sdegno a livello mondiale, coalizzando ed estremizzando avversari e posizioni contro Israele. Usa e Ue comprese, seppur a livello meramente retorico, con la richiesta perentoria ma ininfluente di un’indagine trasparente e immediata da parte di Tel Aviv. Condanna, certo, ma molto vicina a un “mi raccomando, risolvete tutto voi”. Da parte sua il presidente americano Joe Biden ha chiamato direttamente la guida della Wck, lo chef Andrés, per esprimere le proprie condoglianze e annunciare che ribadirà con forza a Israele che gli operatori umanitari vanno protetti. Sia l’esercito israeliano – che ha ammesso la responsabilità dell’attacco – sia Netanyahu hanno chiesto scusa e annunciato un’inchiesta militare “ad alto livello”, i cui risultati dovrebbero poi essere resi pubblici.
“Voglio essere molto chiaro: l’attacco non è stato condotto con l’intenzione di colpire gli operatori”, ha detto il capo di Stato maggiore dell’esercito israeliano Herzi Halevi. Il comandante ha parlato di “uno sbaglio dovuto a una cattiva identificazione notturna nel corso di una guerra in condizioni molto complesse”. Su questo punto il quotidiano Haaretz riferisce invece che l’incidente è stato “il risultato della mancanza di disciplina da parte dei comandanti sul campo, e non a problemi di coordinamento tra l’esercito e l’organizzazione umanitaria”. Secondo fonti interpellate dal giornale israeliano, i comandanti e le forze coinvolte hanno agito contrariamente agli ordini e alle istruzioni che avevano ricevuto. Le parole di Netanyahu tradiscono tutta la tensione per una situazione che a Israele sembra sfuggire del tutto di mano. “È stato un tragico incidente, in cui le nostre forze hanno colpito senza intenzione gente innocente nella Striscia. Siamo in contatto con i governi coinvolti e faremo di tutto per assicurare che questo non accada più”.
La posizione e la guerra di Israele
Più passa il tempo, più Israele viene schiacciato dalla pressione del Medio Oriente e del mondo. Le continue (e improbabili) minacce di avanzare su Rafah, la crescente ed esplicita intransigenza nei confronti degli Usa, gli incessanti attacchi sui civili, i lanci reciproci di razzi coi temibili Hezbollah e i raid in territorio siriano sembrano gli ingredienti della tempesta perfetta. Gli attacchi in Siria contro una sede consolare dell’Iran, in particolare, rivelano l’insofferenza israeliana per lo stato dei negoziati con le monarchie arabe. Quegli ormai famosi Accordi di Abramo che gli Usa hanno sponsorizzato, che regno saudita ed emirati del Golfo hanno abbracciato e che Teheran vuole distruggere per sempre. In questo quadro frastagliato, gli Stati Uniti stanno trattando con gli iraniani e separatamente anche con il presidente siriano Bashar al-Assad, mentre gli Hezbollah libanesi si sono recati per la prima volta negli Emirati Arabi Uniti, luogo privilegiato per i colloqui diplomatici regionali ma anche grandi alleati di Israele.
Washington parla con Teheran con l’obiettivo di stemperare le fiamme della guerra in Medio Oriente, ormai stanchi di esercitare la propria egemonia su molteplici fronti e tentare di concentrarla nel teatro più strategico di tutti: l’Indo-Pacifico. L’Iran, dal canto suo, vuole proseguire nella sua agenda anti-occidentale e, dunque, anti-israeliana, armando e sostenendo i suoi clientes regionali come Hamas, Hezbollah e Houthi per mantenere altissima la pressione anche sulla nostra economia. Hezbollah ha anche un suo programma che prescinde dalla volontà iraniana e che ha spinto il “Partito di Dio” a inviare per la prima storica volta emissari sulle rive del Golfo Persico: mantenere lo stallo almeno fino alle elezioni presidenziali americane. Lo Stato ebraico, infine, è in piena crisi esterna e interna e non si fida più di nessuno. Ogni azione diplomatica degli attori coinvolti nel conflitto viene interpretata con piglio paranoico, nella bulimia securitaria di mostrarsi ancora come la grande potenza che può mantenere l’equilibrio nel Medio Oriente.