Gaza, spiragli di Hamas sui negoziati ma Israele allontana l’accordo

Sono ripresi a Il Cairo i colloqui per raggiungere un accordo sul cessate il fuoco. Il primo giorno, sabato, si è concluso senza intesa. Hamas e Israele restano lontani sulle condizioni per la tregua, ma c'è qualche spiraglio

Foto di Maurizio Perriello

Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

Le trattative per una tregua a Gaza sono una storia infinita e tragica. I colloqui ripresi al Cairo per il rilascio degli ostaggi restano ancora in bilico e nulla è dato per scontato, dopo che Hamas ha gelato i negoziati al termine di una giornata che aveva visto spiragli positivi su una possibile intesa. Dall’altro lato c’è un Israele deciso a lanciare la temuta e rischiosa offensiva su Rafah, nel sud della Striscia, sospeso tra le proteste popolari che vogliono l’accordo e la frangia estremista del governo Netanyahu che non vuole neanche sentirne parlare.

L’ottimismo filtrato dalla capitale egiziana – con i mediatori che parlavano di “progressi significativi” – si è attenuato sabato sera, quando un alto funzionario israeliano ha frenato gli entusiasmi accusando i fondamentalisti palestinesi di “vanificare gli sforzi” per l’intesa insistendo sulla precondizione di mettere fine alla guerra. Condizione imprescindibile per Hamas, che rinvia le trattative alla giornata di domenica mentre gli analisti che prevedono ancora giorni di stallo. Con tutto il mondo a chiedersi ancora una volta: questa sarà la volta buona?

Lo stato dei negoziati per un accordo tra Israele e Hamas

Un alto funzionario di Hamas ha sottolineato che il gruppo “non accetterà in nessuna circostanza” una tregua a Gaza che non includa esplicitamente la fine completa dell’offensiva israeliana nella Striscia. E ha accusato direttamente il premier israeliano Benjamin Netanyahu di “ostacolare” gli sforzi per raggiungere un accordo di cessate il fuoco, a causa di “interessi personali”. Dall’altro lato della barricata, lo Stato ebraico ha fatto sapere che non accetterà “in nessun caso la fine della guerra come parte di un accordo per il rilascio dei propri ostaggi”. Ancora una volta, insomma, le due posizioni si dimostrano inconciliabili. Il nodo resta quindi sempre lo stesso, ma la delegazione di Hamas arrivata al Cairo continua a discutere lo schema generale dell’intesa con i mediatori egiziani, statunitensi e del Qatar.

Nelle informazioni contraddittorie sull’andamento dei colloqui, Barak Ravid del sito Axios ha riferito che Hamas potrebbe accettare di portare a termine la prima fase dell’accordo (il rilascio umanitario di ostaggi) senza un impegno ufficiale da parte di Israele a porre fine alla guerra. Secondo il quotidiano saudita Asharq, in cambio la fazione palestinese avrebbe solide garanzie dagli Stati Uniti sul cessate il fuoco, il completo ritiro dell’esercito nemico dalla Striscia dopo le prime due fasi dell’intesa e la promessa che Tel Aviv non proseguirà i combattimenti dopo il definitivo rilascio dei circa 130 ostaggi ancora a Gaza. Ciò che sembra certa è la volontà da parte dei fondamentalisti palestinesi Hamas di rilasciare 33 ostaggi israeliani nella prima fase dell’eventuale intesa. All’inizio dei negoziati, Hamas aveva affermato di avere a disposizione soltanto 20 ostaggi, salvo poi correggere il tiro.

Per tutta la giornata di sabato Israele ha continuato a invitare alla prudenza. Una fonte dello Stato ebraico ha sottolineato di aspettare con ansia di vedere la posizione finale di Hamas. Poi ha insistito sostenendo che “alla luce dell’esperienze passate, anche se i fondamentalisti dicono di seguire lo schema concordato, i piccoli dettagli e le riserve che presenterà potrebbero far naufragare l’accordo”. Per questo, finora, nessuna delegazione di Israele si è recata in Egitto, dove andrà solo “se ci sarà una risposta da parte di Hamas che abbia un orizzonte per i negoziati”. Anche Benny Gantz, il ministro del Gabinetto di guerra, ha invitato alla pazienza confermando che i palestinesi ancora non hanno dato una risposta definitiva ai mediatori. Il segretario di Stato americano, Antony Blinken, dopo aver bocciato di nuovo l’intenzione di Israele di entrare a Rafah che comporterebbe “danni inaccettabili”, ha osservato che al momento “Hamas è l’unico ostacolo al cessate il fuoco a Gaza”.

Nella ridda di notizie riguardanti la possibile intesa, ancora il quotidiano saudita Asharq ipotizza che Tel Aviv sia disposta anche a rilasciare Marwan Barghouti, il leader palestinese di Fatah condannato a vari ergastoli per terrorismo. A patto però che vada a Gaza e non in Cisgiordania. Ma di un tema così spinoso in Israele non c’è alcuna conferma ufficiale. Fatto sta che le pressioni internazionali affinché l’accordo si faccia, dopo lo Stato ebraico, si stanno concentrando su Hamas. Il Qatar, ha rivelato Times of Israel, sarebbe pronto ad accettare la richiesta degli Usa di espellere da Doha la leadership di Hamas, tra cui lo stesso leader supremo Haniyeh, se i vertici della fazione islamista continuassero a rifiutare l’intesa. Una richiesta, ha rivelato il Washington Post, consegnata da Blinken il mese scorso.

“Quella sul tavolo è la migliore bozza di accordo presentata finora”

In questa fase del conflitto la tattica di Hamas è mostrarsi più accondiscendente e pronto alla pace, scaricando su Israele tutta la responsabilità e l’immagine dell’intransigenza che sta costando morte e devastazione. In realtà l’agenda dei fondamentalisti, legata a doppio filo a quella dell’Iran e delle altre milizie sciite, resta quella di contrastare lo Stato ebraico e tenerlo sotto scacco ancora a lungo, in modo da impedire la normalizzazione dei rapporti con le monarchie arabe sancita dagli Accordi di Abramo. Per questo motivo un funzionario arabo, vicino ai negoziati, afferma che la bozza di accordo tra le parti per porre fine alla guerra a Gaza è “la migliore” dall’avvio dei negoziati e la sua “accettazione è imminente”. Tuttavia la stessa fonte ci ha subito riportati sulla Terra Santa, esprimendo timori sul fatto che “entrambe le parti possano fare una capriola e tornare al punto di partenza”. Il punto di dissenso è – ancora una volta – che Hamas in cambio degli ostaggi vuole “una esplicita” fine della guerra nella Striscia, mentre Israele è totalmente contrario e punta a distruggere militarmente il gruppo.

Anche il leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, è intervenuto per la prima volta sulla proposta di accordo con Tel Aviv, affermando tramite i rappresentanti che l’offerta è la più vicina a soddisfare le richieste del gruppo islamista, anche se ha sollevato diverse riserve. Secondo il Wall Street Journal, che cita mediatori arabi, Hamas “dovrebbe presto avanzare una controproposta”. Intanto gli Stati Uniti avrebbero garantito a Hamas, attraverso l’Egitto e il Qatar, che il conflitto cesserà dopo la prima fase di 40 giorni dell’accordo sugli ostaggi che si sta negoziando al Cairo. Citando “una fonte molto autorevole di Hamas”, l’analista veterano dell’emittente televisiva Canale 12, Ehud Ya’ari, riferisce che gli americani si sono impegnati, “sia che Israele dica sì sia che dica dica no, a fare in modo che la guerra finisca dopo la prima fase” dell’accordo, durante la quale dovranno essere rilasciati 33 ostaggi vivi e in perfetta salute. Per i fondamentalisti di Gaza, aggiunge Ya’ari, questa garanzia americana “vale più di qualsiasi commento israeliano”.

Lo stesso Iran sottolinea che le probabilità di un cessate il fuoco sono aumentate dopo i tentativi e le pressioni su Israele da parte dell’opinione pubblica regionale e internazionale. Dal Gambia, dove si trova per partecipare ad una riunione dell’Organizzazione per la cooperazione Islamica (Oic), il ministro degli Esteri Hossein Amirabdollahian si augura che “la guerra a Gaza finisca e che i diritti dei palestinesi siano garantiti. Il terreno dovrebbe anche essere preparato per l’invio di aiuti umanitari nella Striscia e per il ritorno nelle loro case dei palestinesi sfollati“.

“Stiamo ancora parlando delle questioni principali, che sono il completo cessate il fuoco e il completo ritiro di Israele da Gaza. Speriamo di poter trovare in giornata delle risposte positive”, dichiara da parte sua il portavoce di Hamas, Osama Hamdan, in una telefonata con l’emittente Al Jazeera. “Purtroppo, Netanyahu ha dichiarato chiaramente che, indipendentemente dal cessate il fuoco, continuerà ad attaccare Rafah, il che significa che non ci sarà alcun cessate il fuoco. La nostra intenzione di raggiungere una tregua significa che non ci saranno più attacchi in nessuna parte di Gaza, compresa Rafah”. E ancora: “Dobbiamo parlare della reale posizione degli Stati Uniti, perché questa è la questione principale che influenzerà la posizione degli israeliani, soprattutto di Netanyahu. Le garanzie sono importanti, ma abbiamo bisogno di una dichiarazione chiara che certifichi le posizioni di ciascuna parte. Perché, come tutti sappiamo, gli israeliani cercano sempre di non onorare i loro impegni”.

Potrebbero volerci giorni per finalizzare l’accordo per Gaza

Dietro la cortina degli slanci, della diplomazia, delle dichiarazioni e dei dietrofront, appare però sempre più probabile che la finalizzazione di qualsiasi accordo per un cessate il fuoco a Gaza richiederà ancora diversi giorni. Secondo la Cnn, che cita funzionari statunitensi e israeliani, qualsiasi potenziale intesa su un quadro che abbini un cessate il fuoco temporaneo al rilascio degli ostaggi a Gaza sarà probabilmente seguito da negoziati continui sui dettagli più contestati dell’intesa. Per questo motivo, la negoziazione di un accordo finale tra le parti dovrebbe richiedere ancora diversi giorni. Mentre la delegazione di Hamas si è recata al Cairo per l’incontro con i mediatori, il direttore del Mossad David Barnea è rimasto in Israele, ma secondo fonti israeliane potrebbe recarsi rapidamente in Egitto se Hamas accettasse il quadro dell’accordo. Il direttore della Cia, Bill Burns, è invece rimasto al Cairo.

Stando a due fonti israeliane citate dalla Cnn, per la finalizzazione dell’intesa potrebbe essere necessaria una settimana. L’emittente aggiunge che un funzionario statunitense ha fatto eco a questo punto dicendo che se anche Hamas accettasse l’accordo così come proposto, ci vorrebbe comunque qualche giorno per definire alcuni dettagli che alla fine porterebbero a una tregua. La Cnn sottolinea che i funzionari Usa continuano a guardare ai colloqui con “cauto ottimismo”, descrivendo i progressi compiuti ma ricordando che i precedenti sforzi sono andati in fumo all’ultimo minuto. Intanto decine di migliaia di israeliani sono scesi in piazza in diverse città del Paese, fra cui Tel Aviv, per protestare contro il governo e chiedere a gran voce un accordo per il rilascio degli ostaggi, oltre alle elezioni anticipate. Alcuni familiari degli ostaggi, riporta il Times of Israel, hanno accusato il premier Netanyahu di non volere alcun accordo e di utilizzare la propaganda per spegnere qualunque tentativo di mediatori e Hamas di giungere alla tregua. Alla vigilia di Yom ha-Shoah – che in Israele ricorda l’Olocausto – le famiglie degli ostaggi a Gaza si rivolgono direttamente al governo: “Vogliamo ricordare che avete promesso ogni anno ‘mai più’. È vostro dovere ignorare qualsiasi pressione politica e la storia non vi perdonerà se mancherete l’opportunità, poiché il ritorno degli ostaggi è una condizione necessaria per la resurrezione nazionale”.

L’Egitto inaugura la nuova Rafah nel Nord Sinai

Mentre Israele continua ad agitare la minaccia di una rischiosissima avanzata su Rafah, dall’altro lato del confine l’Egitto inaugura New Rafah City, una delle nuove città volute dal presidente Abdel Fattah al Sisi nel Sinai e la più vicina al confine con la Striscia di Gaza. Appena 7 chilometri dalla Rafah palestinese bombardata che rischia di essere l’ultimo baluardo del conflitto. Una mossa per rimarcare la “differenza” con il bellicoso Stato ebraico e la vicinanza alla causa araba palestinese, pur restando al di sopra delle parti per conservare il dirimente ruolo negoziale di mediatore tra le parti in conflitto. Ma attenzione: non si tratta di una nuova Rafah destinata agli sfollati di Gaza, il cui esodo è tra le preoccupazioni principali dell’Egitto.

Il confronto tra le due città è impietoso: la Rafah attuale è un fazzoletto zeppo di civili e macerie, mentre quella nuova luccica di edifici nuovi di zecca, ampi viali asfaltati, scuole, ospedali e parchi. Il governatore della regione Mohamed Abdel Fadil Shousha spiega che si tratta di una sorta di “indennizzo per quanti hanno visto danneggiata o distrutta la propria casa durante la guerra senza quartiere contro i terroristi dell’Isis e non solo”, consumata tra il 2015 e il 2019 (durante la quale sono stati eliminati 1.500 tunnel di Hamas), e anche di “una pietra miliare per lo sviluppo di un territorio di cui il presidente ha detto di non voler cedere neanche un granello di sabbia“. Messaggio, questo, rivolto a Israele, che mira storicamente al controllo del Sinai come ampiamente mostrato in passato.

Il progetto egiziano va oltre la semplice retorica e la semplice vetrina e punta a trasformare in “terra promessa” quello che è un angolo di mondo in larga parte desertico. Da qui la scelta di incentivarne il popolamento, promuovendo l’agricoltura e offrendo nuovi appartamenti dotati di ogni comodità e servizi, compresa una rete digitale estesa a tutte le abitazioni. La nuova Rafah è composta al momento da 42 edifici e 272 appartamenti costruiti a tempo di record, ma l’obiettivo è di arrivare entro breve a un migliaio di unità abitative in circa 600 palazzi. In totale la città dovrebbe raggiungere i 75mila abitanti. Ovunque camion e materiale da costruzione, forse quello che i satelliti americani avevano scambiato per un ipotetico insediamento per i palestinesi sfollati. Nulla di tutto questo, anzi. La nuova Rafah vuole essere una bandiera egiziana ben conficcata sul Sinai, nella convinzione che consentire lo sfollamento forzato degli abitanti della Striscia determinerebbe l’affossamento definitivo della causa palestinese. Senza contare che i profughi dal Sudan costituiscono già un grande fardello per il Paese, che si sta faticosamente risollevando da una profonda crisi economica.