Gaza, Hamas allontana Qatar e negoziati con Israele: la mossa a sorpresa sull’Oman

Mesi di negoziati infruttuosi e di "no" di Hamas hanno dissipato la pazienza del Qatar, grande centro di mediazione per la guerra di Gaza. I ruoli di Turchia e Oman

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Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

Dopo sei mesi di guerra a Gaza il copione non è cambiato: Hamas e Israele sono lontani da un accordo sugli ostaggi per arrivare a un cessate il fuoco. A complicare i negoziati è intervenuto stavolta un altro evento, che rappresenta certamente una svolta nell’ambito delle relazioni tra gli attori in gioco: Hamas è vicino a una rottura con il Qatar.

Il ruolo di mediatore dell’Emirato sul Golfo Persico è stato centrale per gli sforzi diplomatici legati al conflitto, ma ora le cose potrebbero cambiare radicalmente. I fondamentalisti della Striscia avrebbero già volto il loro sguardo altrove per spostare la propria sede politica. Il nome più gettonato è l’Oman, Paese arabo ancora più ambiguo del Qatar nei suoi movimenti tattici nell’ambito della guerra.

Hamas e Qatar vicini alla rottura: perché e cosa cambia

Mentre il mondo è distratto dagli attacchi reciproci tra Israele e Iran, che non vogliono l’escalation, il conflitto di Gaza non si è affatto spento. Tra le intenzioni del governo Netanyahu c’era probabilmente anche la volontà di “distrarre” gli attori dalle operazioni nella Striscia, cercando al contempo di barattare la de-escalation con Teheran con una sorta di “permesso” (negato) dagli Usa per l’offensiva su Rafah. Lontano dal campo di battaglia, il Qatar si è imposto come grande sede negoziale per lo scontro in atto e hub finanziario aperto a chiunque volesse fare affari con la mediazione Doha, a prescindere dalla confessione o dalla nazionalità. Ma il Qatar non rappresenta soltanto l’unica sede in cui fondamentalisti e israeliani siano riusciti a parlarsi, seppur con scarsissimi risultati: dal 2012 l’emirato ospita anche il gruppo dirigente di Hamas in esilio, compreso il leader Ismail Haniyeh.

Secondo il Wall Street Journal, questo sistema rischierebbe di crollare a breve e, con esso, anche il colloquio tra le parti in contrasto. Un funzionario arabo, rimasto anonimo, ha riferito che l’ufficio politico di Hamas sta cercando di spostare la propria sede dal Qatar e sarebbe indeciso tra due Paesi arabi, propendendo molto probabilmente per l’Oman. Perché questo cambiamento? Dopo mesi di tavoli infruttuosi e “no” da parte di Hamas a qualunque compromesso con Israele per una tregua, le autorità qatariote avrebbero perso la pazienza. Non accettano di aver fallito dopo aver profuso un tale sforzo diplomatico, oltre che finanziario, avvallando le istanze fondamentaliste. La sfiducia nei confronti degli islamisti palestinesi, insomma, sta abbandonando anche il più attivo dei Paesi mediatori. La svolta potrebbe produrre tre scenari principali:

  • il tavolo delle trattative potrebbe saltare del tutto;
  • la “cacciata” dei leader di Hamas dal Qatar potrebbe produrre un’escalation incontrollata, modificando la traiettorie anche delle altre monarchie arabe;
  • la Turchia potrebbe emergere come nuovo polo negoziale, accrescendo la sua influenza e sfruttando la propria “ambiguità” (tra Nato e blocco anti-occidentale) per consolidare immagine e soft power come grande protettore panislamico.

Il ruolo della Turchia

Non è un caso che, proprio nel giorno in cui sui media internazionali rimbalza la notizia della presunta rottura col Qatar, il leader di Hamas sia stato ricevuto in gran pompa a Istanbul da Recep Tayyip Erdogan (con tanto di abbraccio ai vertici fondamentalisti). Non male per un Paese – la Turchia – che a parole condanna Israele per la tragedia dei civili di Gaza (per compattare l’opinione pubblica) e nei fatti offre allo Stato ebraico preziosa cooperazione militare e di intelligence in teatri come Iraq e Caucaso. E che, più di un’epoca fa nell’epocale Novecento, fu tra i primi Paesi a riconoscere lo Stato d’Israele subito dopo la sua formazione nel 1948.

Da un lato, dunque, l’esigenza economica e tattica di riconciliarsi con lo Stato ebraico per raggiungere due obiettivi: migliorare la propria immagine e spezzare la spirale isolazionista per l’intervento perenne in Siria e in Libia, e favorire il trasporto del gas israeliano verso Ankara e l’Europa. Dall’altro lato, il parallelo sostegno alla causa palestinese rispondeva e risponde invece a esigenze ideologiche e propagandistiche, vettore privilegiato della missione panislamica (che parla cioè a tutti i musulmani, in concorrenza con Arabia Saudita e Iran) che Ankara si è autoassegnata. Il sostegno a Hamas, in particolare, risponde a due necessità sul fronte interno: le forze laiche turche vi leggono con soddisfazione una posizione anticoloniale, mentre le frange islamiste e nazionaliste vi leggono una manifestazione di solidarietà islamica.

Perché l’Oman

Come e più del Qatar, l’Oman è uno dei Paesi ambigui del Medio Oriente: ufficialmente neutrale, al contempo storico alleato dell’Occidente e avviato a relazioni bilaterali coi tre imperi “del male” (secondo la propaganda occidentale) Cina, Russia e Iran. Dal punto di vista di Hamas, il sultanato nel sud della Penisola Arabica rappresenta un alleato meno intraprendente del Qatar. Già all’indomani del maxi attacco del 7 ottobre, l’Oman ha tributato solidarietà e vicinanza nei confronti di Hamas, definendolo un “movimento di resistenza” in contrapposizione all’etichetta occidentale di “organizzazione terroristica”. Di più: “liberatori della Palestina”. Auspicando, al contempo, una soluzione politica del conflitto di Gaza che contempli i due Stati, per mettere fine a una situazione “creata 70 anni fa, e non il 7 ottobre 2023”.

L’ambiguità dell’Oman è dunque data dalla coesistenza tra la collaborazione con Emirati e Arabia Saudita, le relazioni diplomatiche con Usa, Regno Unito e Ue e i legami economici e commerciali con i grandi avversari dell’Occidente. In particolare con la Cina, beneficiaria di oltre il 90% delle esportazioni di petrolio omanite e firmataria di un accordo per la fornitura di gas naturale liquefatto. Nell’ultimo biennio con la Russia i traffici commerciali sono invece raddoppiati, mentre quelli con l’Iran sono addirittura triplicati. Con Teheran, nel 2013 Muscat aveva inoltre siglato un accordo di cooperazione strategica. Dieci anni dopo, nel 2023 il sultano omanita e il presidente russo hanno intrattenuto un colloquio telefonico per la prima volta dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica.

Ancora oggi l’Oman protegge la sua posizione di neutralità e mediazione per ottenere vantaggi da Est e da Ovest. Una politica inaugurata durante il lungo sultanato di Qaboos bin Said Al Said (1970-2020) e proseguita dall’attuale reggente Haitham bin Tariq Al Said. La linea del non-allineamento permette all’Oman di offrirsi come nuovo hub negoziale e politico per i leader di Hamas e, al contempo, di rivelarsi prezioso per Usa e Ue nonostante alcune operazioni vadano contro gli interessi americani ed europei.