Gli effetti della guerra in Ucraina sul clima: cosa rischiamo

Molta attenzione si sta concentrando sulla sicurezza energetica e sull'aumento della produzione di combustibili fossili. Quale futuro per il clima?

Come sappiamo il nodo centrale della guerra in Ucraina è l’energia, in varie forme e con numerose implicazioni, geopolitiche ed economiche. Molta attenzione si sta concentrando sulla sicurezza energetica e sull’aumento della produzione di combustibili fossili. L’Europa dipende dalla Russia per circa il 40% del suo gas e per circa un quarto delle sue importazioni di petrolio. Il taglio di questi flussi è rischiosissima: da un lato paralizzerebbe la Russia economicamente, ma dall’altro potrebbe anche innescare un blackout in tutto il continente.

La nuova carbonizzazione dell’economia globale rischia di diventare un danno collaterale della guerra, e questo secondo gli esperti potrebbe essere catastrofico. Ciò che vale per l’energia vale anche per cibo e minerali: Ucraina e Russia rappresentano circa il 12% del totale scambiato nel mondo e l’impatto della guerra sulle forniture alimentari si fa già sentire. Inoltre, molti dei materiali necessari per una transizione energetica pulita si basano anche su catene di approvvigionamento globali instabili che coinvolgono, tra l’altro, proprio la Russia.

L’8 marzo l’Agenzia internazionale per l’energia che ha pubblicato il suo rapporto “Global Energy Review”, in cui si afferma che il 2021 ha registrato “il più grande aumento anno su anno delle emissioni di CO2 legate all’energia in termini assoluti”, con un aumento del 6%, trainato principalmente dal carbone, e raggiungendo il livello più alto di sempre. Nel frattempo, precipitazioni record hanno portato disastrose inondazioni e morti nell’Australia orientale. In altre parole, la crisi climatica sta accelerando e l’urgenza di decarbonizzare è indiscutibile.

E allora la domanda sorge spontanea: il cambiamento climatico e tutte le sue conseguenze disastrose improvvisamente non sono più un tema? O lo sono ancora ma il paradigma è cambiato?

A chiederselo in un illuminante intervento è Bruno Giussani, curatore globale di TED e co-fondatore della sua iniziativa sul clima “Countdown”, che si è confrontato sul tema con lo storico Yuval Noah Harari e con l’analista geopolitico Ian Bremmer. “Possiamo essere indignati per la guerra, preoccuparci della sicurezza energetica e combattere il cambiamento climatico allo stesso tempo?” si chiede provocatoriamente Giussani.

La Commissione europea ha presentato un piano per rendere l’Europa indipendente dai combustibili fossili russi entro il 2030, iniziando con la riduzione delle importazioni di gas di due terzi entro la fine dell’anno: ciò include l’aumento delle importazioni di gas liquefatto, la diffusione più rapida delle energie rinnovabili, la conservazione dell’energia, lo sviluppo dell’idrogeno e l’adozione di misure per rispondere all’aumento dei prezzi dell’energia.

Molti vedono l’instabilità provocata dalla guerra come un bivio, un rinnovato incentivo per accelerare l’adozione di energia pulita. “Sbarazzarsi della dipendenza dai combustibili fossili russi significa sbarazzarsi dei combustibili fossili e, una volta ottenuto il passaggio a fonti più pulite, non ci sarebbe modo di tornare indietro”. Questa è, per ora, la posizione dell’Europa, anche se poi nella pratica non c’è consenso: la Germania sta ad esempio eliminando gradualmente le centrali nucleari, la Francia invece sta pianificando una ulteriore espansione del nucleare.

Per altri analisti invece non possiamo affrontare contemporaneamente sicurezza energetica e decarbonizzazione. Dovremmo prima affrontare la crisi energetica e poi preoccuparci del cambiamento climatico, dando la priorità alla sicurezza dell’approvvigionamento energetico, all’aumento della produzione di petrolio e gas e al rinvio dell’eliminazione graduale del carbone. Gli Usa, che stanno persino cercando di convincere Venezuela e Iran ad aumentare la produzione di petrolio, la pensano così. In una certa misura anche Regno Unito e Cina.

Ma la sfida che ora dobbiamo affrontare, spiega Giussani, è anche quella della deglobalizzazione. La lotta al cambiamento climatico richiede una collaborazione globale, ma dopo decenni di integrazione globale, accelerata nel 2001 quando la Cina è entrata a far parte dell’Organizzazione mondiale del commercio, il mondo sta diventando meno integrato. “Questa tendenza deglobalizzante non è nuova, risale alla crisi finanziaria del 2008, ed è stata accelerata negli ultimi anni dalla crescente rivalità economica e strategica tra Stati Uniti e Cina e dalla pandemia, che ha contribuito alla disuguaglianza globale e ha fornito nuove motivazioni per politiche più protezionistiche” sottolinea.

Mosca ha riunito investitori cinesi in Russia per suggerire che il ritiro occidentale rappresenta un’opportunità unica per “entrare e fare di più perché la Russia è farà affidamento su di noi”. Una nuova Guerra Fredda è già in atto: il mondo si divide in due parti ideologicamente incompatibili, una autoritaria intorno alla Cina e alla Russia e una democratica intorno agli Stati Uniti e all’Europa.

Ma questa nuova Guerra Fredda è diversa, perché il mondo è diventato molto più interconnesso e interdipendente, il che significa che una rapida riorganizzazione o disorganizzazione delle catene di approvvigionamento globali comporterà interruzioni significative, dall’aumento dei prezzi alla carenza. In secondo luogo, la Cina non è l’Unione Sovietica: è una grande economia di successo con una politica estera decisa che ha in generale raggiunto la parità tecnologica con gli Stati Uniti, ha la marina più grande del mondo e si sta avvicinando ogni giorno al momento in cui riprenderà il controllo di Taiwan, l’hub mondiale dei semiconduttori. Infine, non è scontato che gran parte del resto del mondo si allineerebbe con gli Stati Uniti e l’Europa. Giusanni punta il dito sul fatto che la risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che condanna l’invasione dell’Ucraina ha raccolto 141 voti, con 35 Paesi astenuti e solo 5 contrari (Bielorussia, Eritrea, Corea del Nord, Siria e la stessa Russia).

Come afferma l’AIE, “Più rapidamente i responsabili politici dell’UE cercano di allontanarsi dalle forniture di gas russe, maggiore è la potenziale implicazione, in termini di costi economici ed emissioni a breve termine”. L’assorbimento di tali costi richiederà un enorme sforzo, impegno e creatività politica.

Quali sono le implicazioni di tutto questo per il clima? La lotta al cambiamento climatico necessita di una cooperazione globale. “La nuova configurazione che emerge dall’invasione russa dell’Ucraina e dalle sanzioni economiche dell’Occidente in risposta minaccia di rendere quella collaborazione esponenzialmente più difficile, se non impossibile”.

Inoltre, la lotta al riscaldamento globale e ai suoi impatti richiede che i Paesi ricchi condividano tecnologie e risorse finanziarie con quelli più poveri per consentire loro di adattarsi e sviluppare le loro economie e società senza ricorrere ai combustibili fossili. Fino ad ora, quel supporto è mancato.

Come la crisi del Covid, precisa Giusanni, è improbabile che la guerra in Ucraina “sia l’ultimo shock sistemico globale con il potenziale di far deragliare l’azione per il clima. Ci saranno altre crisi e non possiamo continuare a prendere a calci il clima. Dobbiamo sviluppare un piano ora”.

Innanzitutto, dobbiamo riconoscere che in un mondo in cui l’obiettivo è eliminare la fonte fondamentale, cioè i combustibili fossili, che fornisce circa l’80% della nostra energia, le soluzioni climatiche non possono essere disgiunte dalla sicurezza energetica. Le società moderne non possono funzionare senza una fornitura affidabile di energia.

Anche se le rinnovabili sono ora la fonte di energia più economica e i Paesi occidentali si uniscono per accelerarne la diffusione, attuare misure serie per aumentare l’efficienza e ridurre i consumi, sviluppare nuovi approcci come geotermia e idrogeno e investire massicciamente in nuove tecnologie (ad esempio per lo stoccaggio), sarà impossibile per loro mantenere la stabilità delle loro economie nel breve-medio termine senza combustibili fossili e nucleare. Ci vogliono anni per portare in linea un impianto solare, per esempio.

“Dovremo convivere con soluzioni ‘impure’ alla crisi energetica a breve termine, tenendo d’occhio gli obiettivi climatici a lungo termine. In secondo luogo, mentre lavorano per garantire il loro approvvigionamento energetico, i Paesi occidentali devono impegnarsi molto di più sul finanziamento delle infrastrutture energetiche nel sud del mondo: è una questione di equità, ma anche cruciale per contrastare il divario geopolitico che sta iniziando a crearsi. Non dimentichiamo che la Cina è ancora molto interessata a essere un fornitore di soluzioni a basse emissioni di carbonio, come la tecnologia solare.

Per questo, conclude Giusanni, è fondamentale conciliare obiettivi energetici a breve termine e obiettivi climatici a lungo termine in questo mondo in via di deglobalizzazione con un’unità di intenti e di direzione.