Inflazione, chi è stato più penalizzato: in testa lavoratori senza contratto e classi meno agiate

I più penalizzati i dipendenti rimasti senza rinnovo dei contratti, le pensioni superiori a quattro volte il minimo e le classi meno agiate senza rivalutazione dei sussidi

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Giorgio Pirani

Giornalista economico-culturale

Giornalista professionista esperto di tematiche di attualità, cultura ed economia. Collabora con diverse testate giornalistiche a livello nazionale.

Ora abbiamo un numero definitivo: 16,2%. Si tratta di una significativa inflazione, innescata dapprima dalla ripresa successiva alla pandemia di Covid e successivamente dai considerevoli aumenti dei costi energetici, che si è manifestata nei confronti degli italiani negli ultimi tre anni. Questa realtà è stata attestata dall’Istat attraverso i dati pubblicati ieri relativi al mese di dicembre.

La fase critica dell’incremento dei prezzi sta volgendo al termine. Il 2023 lascia al 2024 solamente lo 0,1%. Tuttavia, il peso del passato recente è ancora presente. Questo incide sui portafogli degli italiani e ha conseguenze sui consumi. I lavoratori riescono a recuperare meno di un terzo del potere d’acquisto perduto. I pensionati riescono a salvaguardare solo la metà di esso. Le famiglie con figli sono tutelate grazie all’assegno unico che è stato rivalutato integralmente. Purtroppo, i meno abbienti non godono di alcuna protezione e perdono tutto.

L’aumento dell’inflazione in questi mesi

Il grafico più eloquente è situato nella seconda pagina del documento dell’Istat. Si tratta della curva a campana che si innalza a partire dalla metà del 2021, raggiunge un picco stratosferico alla fine del 2022 e successivamente declina fino a chiudersi solo pochi giorni fa. Pur sembrando appartenere a un’epoca lontana, a dicembre 2022 l’inflazione aveva raggiunto l’11,6%. Un anno dopo, ci troviamo all’0,6%.

Se osserviamo le medie, la progressione è la seguente: un’inflazione del 1,9% nel 2021, seguita da un 8,1% nel 2022 e, infine, un 5,7% nel 2023. Un andamento a campana, appunto. Tuttavia, tale rappresentazione non racconta l’intera storia, come spesso accade con le medie. Mese dopo mese, scontrino dopo scontrino, bolletta dopo bolletta, i conti sono andati addirittura peggio, soprattutto quando l’incremento vertiginoso dei prezzi del gas ha infettato anche il carrello della spesa.

L’Istat indica che il 16,2% di inflazione che separa il mondo del 2023 da quello pre-pandemico del 2019 può essere scomposto in vari comparti. Un terzo dei beni ha subito aumenti attorno alla media, compresi tra il 10 e il 20%, soprattutto nei servizi e nell’abbigliamento. Più di un quinto ha registrato un aumento superiore al 20%, coinvolgendo bollette e prodotti alimentari. Questa chiave di lettura è fondamentale per comprendere l’impoverimento di molti italiani.

In un Paese che vanta le retribuzioni più basse d’Europa, una situazione che perdura da trent’anni, non sorprende che l’inflazione abbia inflitto il colpo finale alle buste paga. Da un lato, le imprese esitano a rinnovare i contratti per evitare di coprire l’impennata dei costi della vita. Dall’altro lato, l’indice dei prezzi utilizzato per il rinnovo è l’Ipca al netto degli energetici.

Coloro che hanno rinnovato (il 54% dei dipendenti, oltre 6 milioni di lavoratori sono ancora senza copertura) lo hanno fatto a livelli molto inferiori all’inflazione. Questo emerge chiaramente dai dati Istat: un calo di 12 punti nel potere d’acquisto tra il 2019 e il 2023, o meglio, 12 punti tra l’andamento dell’inflazione e quello delle retribuzioni contrattuali dei dipendenti. La situazione peggiora se si includono contrattini e partite Iva.

Certamente, i bonus erogati in questi anni hanno contribuito: sono stati la “spesa buona” di Draghi. Anche il taglio del cuneo contributivo ha apportato aiuto, ma vale solo per i dipendenti con un reddito fino a 35 mila euro e scade a dicembre.

Pensionati meglio dei lavoratori, ma solo per chi ha assegni più bassi

I pensionati, protetti dall’indicizzazione automatica all’inflazione, sicuramente escono meglio di lavoratori e famiglie in questa fase tumultuosa dei prezzi. Tuttavia, non tutti godono di questa tutela, soprattutto coloro con assegni più alti. Fino a quattro volte il minimo (2.200 euro lordi), completamente rivalutati, i pensionati hanno recuperato interamente l’inflazione. Ma al di sopra di questo livello, la situazione cambia.

Il governo Meloni non solo ha ridotto la percentuale di indicizzazione, ma è tornato alle meno vantaggiose fasce “secche” dei precedenti scaglioni “progressivi” ripristinati da Draghi. Ciò significa che ciascuna delle sette fasce recupera una percentuale di inflazione specifica: la prima al 100%, poi si riduce dall’85% al 22%.

La fascia media dei pensionati, quindi, ha recuperato solo la metà dell’inflazione. Questo non si traduce certo in pensioni d’oro. Secondo i calcoli della Cgil, un assegno da 3.800 euro lordi (2.700 netti) perderà circa 4.800 euro lordi (2.700 netti) nel biennio 2023-2024.

Il governo Meloni ha così garantito risparmi per 36,8 miliardi nel decennio 2023-2032. Inoltre, ha ottenuto altri 21 miliardi nel ventennio grazie al recente taglio delle pensioni dei medici e di altri lavoratori pubblici.

Assegno unico, quanto penalizza il cambio delle regole

L’assegno unico per i figli, simile alle pensioni ma senza fasce, gode di un meccanismo automatico di indicizzazione all’inflazione. Questo non solo riguarda l’importo base, ma anche le sue variazioni e addirittura il requisito Isee per accedere alla misura.

L’anno scorso, l’Isee necessario per ottenere l’importo massimo dell’assegno è salito da 15 mila a 16.215 euro, mentre quello per ricevere l’importo minimo è passato da 40 mila a 43.240 euro. Nel 2024, questi importi aumenteranno ulteriormente in base all’inflazione dell’anno precedente, raggiungendo rispettivamente 17 mila e 45 mila euro. Ciò comporta un ampliamento delle fasce di accesso all’assegno.

Rispetto al suo debutto, quando l’assegno variava tra 50 e 175 euro al mese per un figlio, ora la gamma si estende da 57 a 200 euro. Si tratta di una protezione significativa, ma al contempo impone un peso sui bilanci pubblici. L’INPS, nel bilancio preventivo per il 2024 approvato dal Consiglio di indirizzo e vigilanza il 19 dicembre scorso, segnala che “l’incremento percentuale più significativo delle spese riguarda le famiglie: 24,3 miliardi, +11% rispetto al 2023”.

Quanto l’inflazione ha colpito la fascia dei poveri

In contrasto con le altre spese sociali e con quanto avviene in molti Paesi europei, i poveri in Italia non sono protetti dagli impatti dell’inflazione. Il Reddito di cittadinanza, in vigore fino al 31 dicembre scorso, non viene rivalutato per tener conto dell’aumento dei costi della vita, così come non viene aggiornato il requisito Isee per accedervi.

Di conseguenza, i beneficiari di questi anni hanno visto il loro assegno deprezzarsi del 16,2%. In pratica, ciò significa che in media hanno ricevuto 421 euro al mese anziché 563. Tuttavia, secondo quanto riportato dall’Istat, sono proprio i più poveri a essere i più colpiti da questa inflazione, trainata dall’aumento dei costi dell’energia e degli alimentari.

Il primo quinto della popolazione ha subito quasi il doppio dell’inflazione rispetto al quinto più ricco nel picco di fine 2022: quasi venti punti percentuali contro dieci. Sebbene la forbice si sia via via ridotta, persiste ancora.

L’Istat stesso afferma che senza gli aiuti per le bollette, l’indice di povertà sarebbe aumentato di altri sette decimi. Bankitalia stima che senza il Reddito di cittadinanza avremmo avuto un milione di poveri in più durante la pandemia di Covid. Tuttavia, al momento, la povertà non sembra essere una priorità per il governo attuale che ha abolito il Reddito di cittadinanza e non ha previsto l’indicizzazione del suo sostituto.