Gaza non esiste più: quale futuro dopo il conflitto tra Israele e Hamas?

Due mesi e mezzo di bombardamenti continui da parte di Israele hanno raso al suolo Gaza quasi del tutto. Chi governerà su disperazione e macerie? Come finirà la guerra con Hamas?

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Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

La Striscia di Gaza è l’inferno in terra. Lo hanno ribadito organizzazioni internazionali come Onu e Croce Rossa, lo confermano i dati e le storie terribili di famiglie spezzate da una guerra che promette di cancellare l’enclave palestinese controllata da Hamas. Il livello di distruzione raggiunto a Gaza City è da libro dell’apocalisse.

In quasi tre mesi di escalation in seguito al maxi attacco di Hamas del 7 ottobre, Israele ha sganciato oltre 15mila bombe sulla Striscia, provocando oltre 20mila vittime, più di due milioni di sfollati e quasi 50mila case distrutte. Una tragedia economica, ma soprattutto sociale e umana. Allo stato attuale dello scontro, al netto dell’intransigenza mostrata da ambo le parti in conflitto, il futuro di Gaza è quanto di più nero si possa prevedere. La ricostruzione fisica genererà rabbia e corsa all’affare soprattutto nel mondo arabo. La ricostruzione politica potrebbe andare anche peggio.

Gaza è quasi completamente distrutta

I numeri della devastazione di Gaza sono davvero impressionanti. Nel giro di due mesi gli israeliani hanno lanciato sulla Striscia il doppio delle bombe che gli Usa sganciavano per un intero anno sull’Afghanistan (considerando i dati forniti dallo United States Air Forces Central Command nel 2019). Tra inizio ottobre e inizio dicembre, si sono contati oltre 20mila raid israeliani, sferrati indistintamente su obiettivi terroristici e civili, accampando l’insostenibile scusa che molti edifici come ospedali e case offrivano rifugio e quartieri generali ai fondamentalisti islamici. Un numero quattro volte superiore rispetto a quello degli attacchi compiuti dallo Stato ebraico tra luglio e agosto 2014 (5mila in poco più di 50 giorni), durante l’operazione “Confine protettivo”.

Le bombe rappresentano un pericolo anche per il futuro, proprio come le mine in Ucraina (ne abbiamo parlato qui). Perché una testata su dieci potrebbe non essere esplosa, nascondendosi anche per anni sotto le macerie e il terreno e rendendo il territorio palestinese di fatto inabitabile. Parliamo di testate pesanti tra i 150 e i 1.000 chili, che sparano frammenti a quasi 400 metri dal luogo della deflagrazione. Il ritmo di rimozione di così tanti ordigni non può tenere il passo della distruzione e dei bombardamenti che proseguono su Gaza: dal 2014 le Nazioni Unite hanno rimosso o distrutto 8.786 residuati bellici in tutta la Striscia.

Nell’ultima settimana Israele ha inoltre intensificato i raid per la distruzione della maggior parte dei tunnel utilizzati dai miliziani di Hamas per organizzarsi e attaccare il territorio ebraico. Il rifiuto da parte di Hamas delle condizioni israeliane per una nuova tregua e per lo scambio di ostaggi ha indispettito ulteriormente lo Stato ebraico. Risultato: la distruzione di Gaza City è quasi totale, con circa l’85% degli abitanti della Striscia che hanno abbandonato le proprie case per evacuare verso sud cercando di mettersi in salvo. Ma l’aviazione israeliana domina i cieli dell’angolo di mondo più densamente popolato e sembra determinata a ridurre Gaza “all’età della pietra”, come sottolineato da diversi analisti.

Qui parliamo dei crimini di guerra commessi da Israele e Hamas.

Quale futuro per la Striscia di Gaza?

L’Occidente è stanco e Israele lo sa. Il presidente americano Joe Biden e gli stessi apparati statunitensi hanno manifestato crescente insofferenza per il prolungamento del conflitto contro i palestinesi e per la ferrea volontà del governo Netanyahu di continuare “finché Hamas non sarà distrutta”, contravvenendo al principio delle “guerre limitate” che invece avevano agitato la Terra Santa nell’ultimo decennio. L’obiettivo strategico dello Stato ebraico è chiaro da almeno 80 anni: controllare tutta la porzione di terra che va dal Fiume Giordano al Mar Mediterraneo. Inclusa la Cisgiordania, che nel “piano Netanyahu-Gantz” verrà annessa del tutto sfruttando l’azione espansionistica e violenta dei coloni (i cui rappresentanti hanno raggiunto ruoli politici di alto profilo nella Knesset e nell’esecutivo) e dei checkpoint disseminati sul territorio.

Al di là dell’obiettivo militare, però, Israele non sembra avere un piano preciso per il dopoguerra, soprattutto per quanto riguarda il futuro politico di Gaza. In un’intervista rilasciata ad Abc News a inizio novembre, Netanyahu ha dichiarato che “per un periodo indefinito manterrà la responsabilità generale della sicurezza” della Striscia. Tradotto: occupazione di Gaza. Frangente indigesto alla Casa Bianca, che si è opposta fermamente, almeno a parole. Anche scritte, come quelle di Joe Biden in un editoriale pubblicato sul Washington Post: “Gaza non potrà essere più una piattaforma per il terrorismo, ma al tempo stesso non ci deve essere alcun spostamento forzato dei palestinesi, alcuna rioccupazione, alcun assedio o blocco e alcuna riduzione del territorio della Striscia”.

Una volta conclusa la spirale di violenza bellica, con ogni probabilità sarà l’Occidente a guida Usa a prendere le redini della Striscia, obbedendo alle proprie linee guida del diritto internazionale umanitario. L’ipotesi più credibile vede l’istituzione di un’Autorità provvisoria che governi Gaza e Cisgiordania sotto l’egida dell’Onu, parallelamente a una “rinnovata” Autorità Palestinese, che è già nei disegni diplomatici avviati da Stati Uniti, Francia, Germania e anche Italia. Il piano in sei punti europeo ricalca quello statunitense:

  1. non potrà essere imposto lo spostamento definitivo della popolazione palestinese da Gaza in altri Paesi o territori;
  2. non ci sarà alcuna riduzione del territorio di Gaza, e cioè: Israele non potrà rioccupare la Striscia in forma stabile, Hamas non potrà tornare a governarla;
  3. Gaza sarà parte di una “soluzione globale” dei territori palestinesi, non più slegata dalla Cisgiordania;
  4. dovrà essere rafforzata (e non ricostituita) l’Autorità Palestinese, già presente in Cisgiordania, secondo i dettami del Consiglio di Sicurezza Onu;
  5. tale Autorità dovrà godere dell’appoggio politico e finanziario da parte degli Stati Arabi;
  6. l’Unione europea dovrà impegnarsi per la costruzione di uno “Stato palestinese”.

Il progetto politico prevede dunque anche dei garanti mediorientali: Lega Araba e Stati come Emirati e Qatar. Al momento il Consiglio di Sicurezza dell’Onu è tuttavia bloccato dai veti dei membri permanenti, segno che nessuna grande potenza ha interesse in una rapida cessazione delle ostilità. Nonostante venga ufficialmente ancora ritenuta valida, la formula “due popoli, due Stati” sembra però definitivamente morta e sepolta. Israele vuole infatti l’annessione e il controllo totale di tutti i territori palestinesi, dalla Valle del Giordano al mare. Una situazione che farà esplodere la Cisgiordania, e forse non solo quella porzione di Medio Oriente. Una cosa è certa: chiunque governerà Gaza, siederà su un trono di macerie e disperazione. Nulla sarà più come prima.

Perché quella di Israele è una guerra contro il tempo.

Gli Usa non hanno la forza per ricostruire il Medio Oriente

Abbiamo accennato alla stanchezza degli Stati Uniti, coinvolti e attivi su troppi fronti di questa “guerra mondiale a pezzi”: Ucraina, Medio Oriente, Indo-Pacifico, Africa. Le elezioni presidenziali del 2024 si avvicinano e l’amministrazione Biden deve fare i conti con il malcontento di apparati e opinione pubblica. Il Congresso ha di fatto bloccato la discussione sul nuovo pacchetto di aiuti globale (dunque Israele + Ucraina) che avrebbe destinato circa 14 miliardi di dollari allo Stato ebraico e oltre 60 miliardi a Kiev. Non è stato infatti neanche raggiunto il numero minimo di senatori favorevoli anche solo a parlare dell’argomento in Aula.

Intanto il Pentagono aveva messo in moto la macchina dei contractor e apparecchiato l’invio in Medio Oriente di un ulteriore gruppo d’attacco di portaerei, sistemi di difesa, caccia da combattimento e centinaia di truppe. Con un problema di fondo: non ci sono soldi per pagare tutto questo. O, meglio, non vengono sbloccati da chi ha davvero il potere decisionale (il Congresso, e non il presidente). L’esercito, come il resto del governo federale, opera infatti entro i confini di una misura di finanziamento temporaneo che congela la spesa ai livelli dell’anno precedente. E, poiché gli aiuti militari per Israele non erano pianificati, la Difesa americana ha dovuto prelevare denaro dalle operazioni esistenti e dai conti di manutenzione, come riferito dal portavoce del Dipartimento della Difesa Chris Sherwood.

Questa ricerca straordinaria di fondi ha comportato un inevitabile taglio di risorse per l’addestramento e le esercitazioni che l’esercito aveva già pianificato per il 2024. Perfino alcuni pagamenti previsti da contratto potrebbero essere ritardati, ha precisato Sherwood. “Né la richiesta di bilancio di base né la richiesta supplementare per l’anno fiscale 2024 includevano finanziamenti per le operazioni statunitensi legate a Israele. Stiamo letteralmente tirando fuori i soldi dalla pelle“, ha aggiunto.

I funzionari del Pentagono mettono in guardia anno dopo anno sul danno che le misure temporanee di finanziamento hanno sulla preparazione militare nazionale. Ricorrere a una misura provvisoria impedisce al Dipartimento di avviare nuovi programmi o di pagarne altri al di sopra dei livelli dell’anno precedente. Se si moltiplica la pesa per i due teatri di guerra in cui gli Usa sono impegnati indirettamente, senza dimenticare il mantenimento della flotta nello Stretto di Taiwan, si configura uno sforzo ormai insostenibile. Stanco ai calcoli citati dal vicesegretario della Difesa Kathleen Hicks, il Pentagono dovrà andare incontro a un taglio della spesa di 35 miliardi di dollari (circa l’1%) per “rimettersi in riga”. Il 2 febbraio scadrà la risoluzione e il Congresso dovrà approvare un disegno di legge di spesa per l’intero anno. Il destino di Israele e soprattutto Ucraina passa anche da questa deadline.

I massacri di Israele contro i palestinesi

Facciamo un riassunto e analizziamo ancora i fatti, per tentare di disegnare il futuro di Gaza e per capire perché nessun attore in Medio Oriente riesca a credere a una pace con Israele. Ormai bisogna precisare ogni cosa e mettersi al riparo dai processi alle intenzioni. E dunque ricordiamo ancora una volta che il maxi attacco di Hamas del 7 ottobre rappresenta un abominevole crimine di guerra per rapimenti e omicidi, nel quale i fondamentalisti hanno ucciso 1.200 persone e ne hanno rapite altre 240. La risposta di Israele è stata altrettanto terribile: l’esercito ha bloccato la fornitura di acqua, cibo ed elettricità verso Gaza, ha ordinato l’evacuazione del nord della Striscia e ha intrapreso bombardamenti a tappeto che hanno ucciso migliaia di civili, molti dei quali bambini. Durante questi bombardamenti non è chiaro se lo Stato ebraico abbia fatto le opportune distinzioni tra obiettivi civili e militari, tanto che anche gli Stati Uniti – egemone globale e guida strategica (anche) di Tel Aviv – hanno riconosciuto che la condotta israeliana non sia stata propriamente rigorosa. La giustificazione addotta da Israele nel voler colpire i nascondigli e i quartieri generali di Hamas, posizionati sotto o dentro edifici civili di Gaza City, non conta per il diritto internazionale: si tratta comunque di un crimine di guerra.

Per non parlare dell’uso di armi vietate. Secondo Human Rights Watch, Israele avrebbe utilizzato munizione al fosforo bianco per colpire obiettivi nel nord di Gaza e nel Libano. Si tratta di un agente chimico pericolosissimo per i civili, non esplicitamente vietato dalle convenzioni internazionali. O forse no, perché la Convenzione sulle armi del 1980 vieta espressamente le bombe incendiarie o l’uso di altre sostanze per attaccare le popolazioni civili. Tuttavia Israele non ha firmato questa Convenzione e ha perfino negato di aver usato armi al fosforo bianco, nonostante i report di vari giornalisti e Ong attestino il contrario.

Qui non si prendono posizioni, lo si è già detto. Anche se chi parteggia per Israele storcerà il naso, lo Stato ebraico si è reso protagonista di veri e propri massacri nei confronti del popolo palestinese dal 1948 a oggi, negandone legittimità e autodeterminazione. Tutto perché il 29 novembre 1947 la Società delle Nazioni (futuro Onu) aveva approvato la risoluzione n. 181, che prevedeva il passaggio di Gerusalemme sotto l’autorità di un mandato internazionale e la divisione del restante territorio del mandato britannico della Palestina in due Stati: uno arabo, l’altro ebraico. Gli arabi rigettarono la proposta e scoppiò la guerra civile. Senza contare tre eccidi compiuti nel 1947, il primo massacro israeliano vero e proprio risale proprio all’anno di fondazione dello Stato ebraico, nel 1948, quando l’organizzazione terroristica ebraica Haganah (sì, all’epoca toccò a loro essere definiti “terroristi”) diede luogo al primo Attentato di Gerusalemme nella Palestina mandataria, facendo esplodere una bomba all’interno di un hotel di proprietà cristiana che sorgeva nel quartiere gerosolimitano di Katamon (il Semiramis Hotel). I civili uccisi furono 26, tra cui almeno un bambino.

Sempre nel 1948, il 9 aprile, fu la volta del massacro del villaggio palestinese di Deir Yassin, attaccato da circa 120 combattenti sionisti membri dell’Irgun e della Lehi (meglio nota come “Banda Stern”). il 21 maggio fu la volta del massacro di Tantūra (uccisi tra i 70 e i 250 civili ed espulsi dalla loro terra circa 1.500 palestinesi), mentre il 30 ottobre avvenne massacro di Eilabun (14 civili morti). Nel 1976, durante la Guerra civile libanese, ci fu il massacro di Tell al-Za’tar, sferrato in un campo di rifugiati palestinesi che ospitava circa 560mila rifugiati nella zona nord-est di Beirut. Qui i numeri si fanno ben più tragici: i civili uccisi furono tra i 1.500 e i 3.000. Nel settembre 1982 le Falangi libanesi, alleate di Israele, si resero protagoniste del massacro di Sabra e Shatila, che provocò la morte di un numero di civili compreso fra 762 e 3.500. Nel 1994 avvenne la più nota Strage di Hebron, commessa dal terrorista israelo-statunitense Baruch Goldstein, che trucidò a colpi di mitragliatrice 60 musulmani impegnati nella preghiera canonica. Nel 2009, nel cosiddetto dell’Operazione Piombo Fuso lanciata da Israele contro Hamas, avvenne il massacro della moschea di Ibrahim al-Maqadma in cui morirono 16 civili, tra cui sei bambini.