Pensioni 2023, cosa succederà dopo il 31 dicembre

Il Governo non trova un'intesa per la riforma entro fine maggio. Ecco le possibili soluzioni e le proposte per il 2023 per uscire in anticipo dal mondo del lavoro

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Redazione

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Quello delle pensioni sembra davvero un rebus dalla difficilissima soluzione. Mentre il Governo non riesce a trovare una quadra per la riforma entro fine maggio, i sindacati premono per inserire il tema nell’agenda nazionale, dopo il naufragio a febbraio a causa dell’invasione russa dell’Ucraina.

Il Def approvato dall’Esecutivo non prevede misure correttive alla legge Fornero, che così tornerebbe in vigore nella sua forma attuale a partire da gennaio 2023. Tutto insomma è ancora aperto e le ipotesi si sprecano. Una delle poche certezze riguarda Quota 102 (64 anni d’età e 38 di contributi), che dall’inizio del prossimo anno non dovrebbe essere rinnovata (con il decreto Aiuti arriva il maxi cedolino: a chi verrà inviato e quando).

Che ne sarà della legge Fornero? L’ipotesi “pensione in due tempi”

Con Quota 41 in scadenza a fine anno, l’amministrazione Draghi è al lavoro per cercare di trovare un punto di incontro tra le risorse a disposizione dello Stato e le richieste dei sindacati. Già nelle scorse settimane era finita sul tavolo l’ipotesi di un assegno in due momenti diversi, prima e dopo i 67 anni. Quella di una “pensione in due tempi” per evitare il ritorno della legge Fornero rappresenta dunque la prima strada percorribile.

Con questo sistema, rilanciato più volte dal presidente dell’Inps Tridico, la prima quota sarebbe quella relativa ai contributi versati, calcolata con il sistema contributivo. La seconda quota, quella retributiva, arriverebbe in un secondo momento. Una volta raggiunta la pensione di vecchiaia, quindi, al lavoratore spetterebbe l’assegno pieno, completo di entrambi i corrispettivi (qui abbiamo parlato del nuovo Consulente digitale dell’Inps: come funziona).

Anni e contributi: i dettagli

Stando alle previsioni, si potrà lasciare il lavoro e accedere alla pensione in due tempi a partire dai 64 anni d’età. La pensione piena sarà poi incassata al compimento dei 67 anni. Oltre all’anagrafica, l’Esecutivo potrebbe richiedere anche un altro requisito: almeno 20 anni di contributi versati allo Stato e una quota contributiva di pensione di importo pari o superiore a 1,2 volte rispetto all’assegno sociale.

Si tratterebbe di un meccanismo ampiamente sostenibile per le casse dello Stato. Secondo Tridico, questo tipo di anticipo costerebbe infatti 400 milioni di euro l’anno. Una spesa molto inferiore rispetto ad esempio ai 10 miliardi di “Quota 41”. (l’Italia è il Paese OECD che spende più soldi pubblici).

La soluzioni proposte dai sindacati

Le ipotesi portate avanti dai sindacati sono sostanzialmente due. Da un lato le sigle vorrebbero l’estensione della flessibilità a partire dai 62 anni di età o, in alternativa, con 41 di contributi a prescindere dall’anagrafica. In questo modo si consentirebbe ai lavoratori di poter scegliere quando andare in pensione senza penalizzazioni per chi ha iniziato a versare contributi prima del 1996.

Un’altra proposta riguarda invece la modifica del meccanismo di adeguamento alla speranza di vita. Cgil, Cisl e Uil puntano su condizioni più favorevoli e strutturali per l’accesso alla pensione da parte delle categorie più deboli. Tra queste figurano ad esempio gli usuranti che rientrano nell’Ape sociale.

Le richieste del Ministero dell’Economia

A incombere su tutte le possibili soluzioni, ci sono le intenzioni dichiarate dal Ministero dell’Economia nell’introduzione al Def. Per il titolare del dicastero, Daniele Franco, la mini riforma pensionistica dovrà avvenire “nel pieno rispetto dell’equilibrio dei conti pubblici, della sostenibilità del debito e dell’impianto contributivo del sistema”.

Per questo si stanno discutendo “soluzioni che consentano forme di flessibilità in uscita e un rafforzamento della previdenza complementare“, con l’obiettivo di “approfondire le prospettive pensionistiche delle giovani generazioni”.