Perché quella di Israele è una guerra contro il tempo

Non solo Hamas: quella di Israele è una guerra su più fronti, dal Libano allo Yemen passando per la Cisgiordania. Ecco perché deve concludere presto le operazioni a Gaza

Foto di Maurizio Perriello

Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

La crisi degli ostaggi tra Israele e Hamas è un elemento tragico della guerra in Medio Oriente, che tuttavia non orienta le strategie militari come invece si potrebbe pensare. L’intransigenza da ambo le parti impedisce qualunque progresso che non porti poi, in caso di concessione di prigionieri o meno, a un reale appianamento di divergenze. L’obiettivo a breve termine è il raggiungimento di un cessate il fuoco, che nel caso di scambio di ostaggi durerebbe appena tre giorni. La speranza degli Stati Uniti è che poi questa tregua venga confermata e prorogata, dando slancio ai negoziati.

Al momento, però, tutto questo sembra una pia illusione. Perché quella di Israele non è solo una guerra contro i fondamentalisti islamici di una coalizione foraggiata dall’Iran, ma anche contro il tempo. Lo Stato ebraico è sempre più schiacciato da profondi dissidi interni, soprattutto nei confronti della leadership di Benjamin Netanyahu, e dalla pressione dell’egemone statunitense, che spingono per una tregua umanitaria. I crimini di guerra contro la popolazione di Gaza (di cui abbiamo parlato qui) non possono più essere ignorati dalla comunità internazionale. Per non parlare della rabbia del mondo arabo, che rappresenta un’autentica bomba a orologeria per la regione e l’intero pianeta.

Come sta andando la guerra di Israele a Gaza

Uno degli obiettivi più importanti, eppure più ignorati dai vertici militari, di Israele è quello di portare a termine in tempi brevi la propria offensiva nella Striscia. Il prolungamento delle ostilità rischia infatti di portare la sopportazione del mondo islamico al punto di rottura, portando a un inevitabile e pericolosissimo allargamento del conflitto. A nord c’è il Libano degli Hezbollah, con truppe e mezzi almeno dieci volte superiori a quelli di Hamas, che finora hanno tenuto testa alle Forze armate israeliane. In generale lo Stato ebraico è circondato da nemici potenziali e reali, pronti a ricevere l’appoggio dell’Iran e i soldi del Qatar.

Intanto però le IDF israeliane continuano l’assedio totale di Gaza, consentendo l’ingresso di camion con aiuti umanitari e gasolio di tanto in tanto, ma di fatto impedendo a ospedali e organizzazioni di prestare perfino i soccorsi essenziali alla popolazione palestinese. Se si osserva la mappa dei quartieri di Gaza City, emerge come le unità israeliane manovrino per isolare totalmente la città non solo da sud, ma anche da ovest, lungo la direttrice offensiva che va dalla fascia costiera fin nel profondo dell’area urbana. In particolare il controllo ebraico si sta espandendo sulle aree di Al-Sheikh Ijlin, Ar-Rimal e sul campo profughi di Al-Shati. Nonostante le dichiarazioni israeliane sul completo collasso militare di Hamas nella Striscia, dati di intelligence confermano l’accerchiamento dell’ospedale Al-Hilu e combattimenti nelle zone di Ar-Rimal, An-Nasr e Al-Sheikh Ijlin.

Le truppe di Gerusalemme sono riuscite a penetrare in un edificio residenziale, occupando la Piazza del Milite Ignoto e i vicini edifici dell’Assemblea legislativa, per poi avanzare verso l’ospedale Al-Wafa. Risultato: Israele ha preso e sbandierato la conquista del Parlamento di Gaza, fatto poi esplodere. Alcuni analisti sono convinti che Hamas “abbia mollato la presa” sul palazzo istituzionale, inutile dal punto di vista strategico al netto della propaganda, per concentrare le forze altrove. E infatti sembra proprio che i miliziani islamisti continuino a lanciare incursioni e a bombardare obiettivi israeliani. Due missili sono riusciti a sfondare la Cupola di Ferro su Ashkelon. La sproporzione è però profondissima: le azioni israeliane nella Striscia, in risposta al maxi attacco di Hamas del 7 ottobre, hanno provocato la morte di più di 11mila persone in poco più di un mese. L’operazione contro l’ormai simbolico ospedale al-Shifa ha raggiunto toni apocalittici. E ora il conflitto si allarga anche a un altro territorio ferito dalla contesa fra israeliani e palestinesi (dopo aver interessato anche lo Yemen, come abbiamo spiegato qui).

Il conflitto si allarga alla Cisgiordania

Dicevamo delle direttici di offensiva. Se a nord le IDF combattono contro i miliziani del Libano e a ovest con le sacche di resistenza di Hamas, a est il conflitto si allarga alla Cisgiordania. In questo territorio, mosaico alternato di zone controllate da palestinesi e israeliani con muri costruiti e altri in costruzione, le violenze e le uccisioni di civili palestinesi da parte dei coloni non hanno mai conosciuto una vera tregua da quando Netanyahu ha inaugurato la sua stretta autoritaria sullo Stato ebraico. L’ANP (l’Autorità Nazionale Palestinese) rappresenta un interlocutore troppo fragile per poter mediare una soluzione nella Striscia, figurarsi in Cisgiordania. Qui Israele infatti porta avanti un’erosione dello spazio palestinese forse più subdola e costante rispetto al territorio di Gaza, nel tentativo di cementare il controllo su tutto lo spazio compreso fra Mediterraneo e Valle del Giordano. Il braccio armato ebraico in Cisgiordania è rappresentato proprio dai coloni, che stanno tuttora espandendo e fortificando i loro insediamenti.

La West Bank, la “sponda occidentale” in termini anglosassoni, ha dunque conosciuto una nuova ondata di violenza e repressione come non si vedeva dal 2014, all’epoca dell’operazione “Margine di Protezione”. Anche questo fattore può costare molto alla sicurezza futura di Israele, i cui cittadini sembrano piombati in una vera e propria “frenesia da fucile”: le richieste di porto d’armi hanno superato quota 236mila, di cui almeno 2mila già concesse. Un numero più alto del totale registrato negli ultimi 20 anni. La rappresaglia delle masse arabe e delle organizzazioni militanti estremiste potrebbe esplodere con una forza irresistibile, facendo piombare su Israele fuoco e odio da ogni angolo del Medio Oriente.

Israele, tanti fronti aperti e poco tempo

Il maxi attacco di Hamas è riuscito nel “miracolo” di unire nei giudizi l’intero mondo islamico, senza apparente distinzione fra sciiti e sunniti. E ha destato dal calcolato “torpore” diplomatico perfino un Paese membro della Nato come la Turchia che, come nell’ambito della guerra in Ucraina, sulla carta fa parte del blocco occidentale a difesa di Israele, ma che di fatto ha “benedetto” l’azione dei confedeli e condannato l’occupazione e le violenze compiute da Israele. Le varie correnti di revanscismo anti-israeliano locali rischiano così di essere coalizzate da grandi influenti come Ankara e Teheran, colpendo al fianco uno Stato ebraico già fiaccato dallo sforzo militare contro un soggetto non statuale e dalla condanna sempre più condivisa di crimini di guerra.

Palestinesi dei territori occupati, milizie locali e cellule terroristiche in Siria, sulla frontiera del Golan, in Libano (Hezbollah), in Yemen (coi ribelli Huthi sul piede di guerra) e in Cisgiordania: la moltiplicazione dei fronti di scontro potrebbero scatenare la tempesta perfetta su Israele. Le formazioni Hezbollah, in particolare, hanno già dimostrato nel 2006 di essere ampiamente in grado di tenere efficacemente testa alle IDF. Sullo sfondo si staglia l’ormai nota potenza dell’Iran, la cui discesa diretta in campo implicherebbe anche quella degli Stati Uniti, che avevano intrapreso accordi di pace e normalizzazione coi Paesi arabi proprio in funzione anti-iraniana. L’effetto domino sarebbe nefasto: l’intervento americano coalizzerebbe infatti tutti i Paesi e le masse musulmane sciite.

Il nemico più urgente per Israele è dunque il tempo: concludere l’operazione di Gaza prima che esploda la rabbia popolare islamica transnazionale. D’altro canto, però, una rapida conclusione dell’offensiva porterebbe a una vittoria inevitabilmente parziale per lo Stato ebraico. Accettarlo, lasciando il controllo politico ai palestinesi e la ricostruzione a Stati come la Turchia, potrebbe essere la giusta via per giungere a una tregua duratura e a una normalizzazione. Le dichiarazioni di Netanyahu e ministri israeliani sembra tuttavia allontanare questo scenario. Neanche l’affidamento della gestione di Gaza a un fronte congiunto di Lega Araba e Nazioni Unite sembra un compromesso accettabile da tutte le parti in causa.

Il ruolo centrale del Qatar

Magari non è così sotto i riflettori, ma l’importanza del Qatar nel conflitto israelo-palestinese va ben oltre le sue contenute dimensioni territoriali. Uno Stato piccolissimo affacciato sul Golfo Persico, ma dalla potenza finanziaria e dall’influenza sul mondo arabo senza eguali. Il sostegno economico dell’emirato ai fondamentalisti della Striscia di Gaza è cruciale e può spezzare qualunque stallo militare o diplomatico. Al punto che anche il Segretario di Stato americano Antony Blinken si è recato a ottobre a Doha per incontrare l’emiro Cheikh Tamim ben Hamad Al-Thani. Con una richiesta fondamentale: il Qatar può convincere Hamas a liberare gli ostaggi israeliani. La capacità qatarina di competere con i due giganti tra i quali è stratto, Iran e Arabia Saudita, risiede dunque nelle enormi risorse finanziarie e nella spregiudicatezza nel tessere relazioni economiche poco trasparenti e senza troppi scrupoli.

Il Qatar, come gli Emirati Arabi Uniti, mira a controllare economicamente e geopoliticamente Israele e Palestina per contare su una piattaforma privilegiata per espandere questa sua influenza anche al resto del Mediterraneo orientale. E anche oltre. Una zona in cui si esprime l’imperialismo anche di un’altra potenza “oscura” che manovra da dietro le quinte del Medio Oriente: la Turchia. Concorrente dell’Iran come guida della missione panislamica – né iraniani né turchi sono popoli arabi, dunque non possono competere sul piano del panarabismo coi sauditi per far presa sugli Stati musulmani – Ankara protegge e sostiene la Fratellanza Musulmana, e quindi Hamas e Jihad Islamica, dal punto di vista militare e politico. Anni fa Erdogan si è proposto come difensore di Gerusalemme, impartendo un’essenziale svolta strategica alla narrazione turca: guida e protettrice della Cupola della Roccia, importante per l’Islam al pari di Mecca e Medina. Il tutto utilizzando la potenza finanziaria del Qatar, che si conferma così la vertebra fondamentale di questo gioco delle parti.