Smart working, chi lavora da casa fa meno carriera

Nel 2023 il 5,6% dei dipendenti che lavora interamente o parzialmente in sede ha ricevuto una promozione nella propria organizzazione, contro il 3,9% di coloro che lavoravano da remoto

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Giorgio Pirani

Giornalista economico-culturale

Giornalista professionista esperto di tematiche di attualità, cultura ed economia. Collabora con diverse testate giornalistiche a livello nazionale.

Dagli elogi allo smart working alla cruda realtà. Recentemente, il Wall Street Journal ha fornito dati che gettano ombre significative sul lavoro remoto, sottolineando una disparità evidente nel percorso di avanzamento professionale rispetto ai colleghi che operano in sede. Questi dati suscitano il sospetto che, per un preciso piano o per una propensione “naturale” da parte dei dirigenti, lavorare distanti dal fulcro dell’organizzazione aziendale possa tradursi in un’ombra professionale.

L’indagine di Live Data Technologies

Il quotidiano finanziario di New York ha citato un’indagine condotta da Live Data Technologies su 2 milioni di dipendenti. Secondo questa società specializzata nell’analisi dei dati nel settore lavorativo, nell’ultimo anno i dipendenti in modalità di lavoro a distanza hanno sperimentato un tasso di promozione inferiore del 31% rispetto a coloro che hanno lavorato in ufficio a tempo pieno o in modalità ibrida. Tra le osservazioni rilevate, si evidenzia anche una distanza maggiore in termini di mentorship e un divario che penalizza in particolare le donne. In dettaglio, coloro che hanno svolto un lavoro a tempo pieno in ufficio o secondo il modello “ibrido”, alternando tra casa e presenza in ufficio, hanno ottenuto una promozione nel 5,9% dei casi. D’altra parte, coloro che hanno lavorato in modalità completamente remota hanno ottenuto un miglioramento nella loro posizione solo nel 3,9% dei casi su cento.

Nick Bloom, un economista di Stanford, identifica questa tendenza come un “pregiudizio di prossimità” e va oltre, affermando categoricamente: “Io la chiamo letteralmente discriminazione”. Questo fenomeno non coinvolge un numero esiguo di individui; al contrario, secondo il Census Bureau e il Bureau of Labor Statistics, si stima che a dicembre il 20% dei lavoratori americani con almeno una laurea si affidi completamente al lavoro remoto.

D’altro canto, i dirigenti sembrano ammettere apertamente questa preferenza. Nove intervistati su dieci rivelano che, quando si tratta di assegnare incarichi considerati prestigiosi, così come di concedere aumenti e promozioni, la preferenza è per i dipendenti che “si sforzano” di presentarsi in ufficio.

Questo risultato è in linea con quanto emerso dal sondaggio online condotto l’anno precedente da KPMG, che coinvolgeva 1.325 amministratori delegati di grandi aziende in 11 Paesi. Quasi due terzi di loro hanno affermato che la maggior parte dei dipendenti sarebbe tornata a lavorare in sede a tempo pieno entro tre anni.

Nessuna differenza per chi lavora in modalità ibrida

Certamente, il Wall Street Journal riporta anche esperienze individuali e studi che confermano come i lavoratori da casa siano inevitabilmente più “isolati”. La mancanza di interazione con i colleghi porta a una perdita nella trasmissione di conoscenza tra i più esperti e i meno esperti, così come impedisce la ricezione di feedback immediati e informali sul proprio lavoro. Questo spiega perché anche grandi aziende innovative, come Meta e Google, abbiano da tempo incoraggiato una maggiore presenza in ufficio.

Guardando al lato positivo, come fa il professor Bloom, si può notare che non sembrano esserci differenze significative tra il lavoro in presenza e la modalità “ibrida”. Tuttavia, per coloro che adottano completamente il lavoro remoto, l’amara realtà è che il tempo risparmiato si traduce in una perdita (potenziale) di reddito alla fine del mese.