Israele, il senso della “pausa tattica” annunciata a Gaza

Israele annuncia una sospensione delle ostilità temporanea, nelle ore diurne ogni giorno fino a nuovo avviso, per consentire l'arrivo degli aiuti umanitari nella Striscia. Ma Netanyahu frena

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Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

Israele annuncia a sorpresa una “pausa tattica” delle attività militari nel sud della Striscia di Gaza. Alla base della scelta ci sono senza dubbio le difficoltà nella guerra contro Hamas e gli ingiustificabili attacchi sui civili che ne hanno compromesso l’immagine a livello internazionale, ma anche altro.

Sulla carta la sospensione momentanea delle ostilità servirà per facilitare la consegna degli aiuti umanitari durante le ore diurne. L’iniziativa riguarderà però soltanto una parte del sud dell’enclave palestinese, lungo la strada che porta dal valico di Kerem Shalom all’autostrada Salah al-Din e proseguendo poi verso nord verso la disastrata di Khan Younis. E avrà luogo tutti i giorni dalle 8 alle 19 “fino a nuovo avviso”.

Perché Israele ha annunciato una pausa nel sud di Gaza

Il “no” degli Usa e le violente tensioni interne non hanno fatto desistere Israele dal suo proposito di piegare la città di Rafah, alla frontiera con l’Egitto. Il contemporaneo inasprimento dello scontro con Hezbollah a nord, al confine col Libano, impone però a Tel Aviv di ridimensionare la propria esposizione militare (e “morale”) in quel che resta della Striscia e della popolazione palestinese dopo migliaia di raid. Le pressioni e le proteste dei cittadini israeliani per il rilascio di tutti gli ostaggi, infine, non lasciano più molto spazio ad altri argomenti di discussione nel Paese. Il conflitto, che da oltre otto mesi infuria, ha gettato Gaza in una crisi umanitaria apocalittica, aumentando fame e macerie giorno dopo giorno e facendo piombare centinaia di migliaia di persone sull’orlo della carestia.

La pausa ha lo scopo di consentire ai camion di aiuti di raggiungere il valico di Kerem Shalom, controllato da Israele, che rappresenta il principale punto di ingresso degli aiuti in arrivo, e di viaggiare in sicurezza verso la vicina autostrada per consegnare rifornimenti ad altre parti di Gaza. La tregua temporanea prevede la supervisione delle Nazioni Unite e delle agenzie umanitarie internazionali. Il valico è stato di fatto “strozzato” da quando le truppe di terra israeliane sono entrate a Rafah all’inizio di maggio, e in altre occasioni i convogli di aiuti sono stati fisicamente bloccati dalle Idf.

Benjamin Netanyahu, dal canto suo, ha definito “inaccettabile” la pausa umanitaria, sottolineando che non c’è stato alcun cambiamento nella politica bellica delle Forze israeliane e che i combattimenti a Rafah “continueranno come previsto”.

La situazione degli aiuti umanitari nella Striscia

Dal 6 maggio al 6 giugno, l’Onu ha ricevuto una media di 68 camion di aiuti al giorno. Questo numero è decisamente inferiore rispetto ai 168 camion al giorno che si registravano ad aprile e molto al di sotto dei 500 camion al giorno che i gruppi umanitari ritengono necessari al fabbisogno dei palestinesi. Si calcola che ogni civile possa contare su soli tre litri d’acqua alla settimana. Un incubo sotto il cielo. Il flusso di aiuti nel sud di Gaza è diminuito proprio mentre cresceva il bisogno umanitario. Più di un milione di palestinesi, molti dei quali erano già sfollati, sono fuggiti da Rafah dopo l’avanzata israeliana, affollandosi in altre parti nel centro e nel sud di Gaza. La maggior parte ora sopravvive in tendopoli fatiscenti, utilizzando trincee come latrine con liquami che inondano le strade.

Il Cogat, l’ente militare israeliano che sovrintende alla distribuzione degli aiuti a Gaza, afferma che non ci sono restrizioni all’ingresso dei camion. Si dice che più di 8.600 convogli di tutti i tipi, sia umanitari sia commerciali, siano entrati nella Striscia da tutti i valichi dal 2 maggio al 13 giugno, per una media di 201 al giorno. Gran parte di queste forniture si sono però accumulate ai valichi di frontiera e non hanno raggiunto la destinazione finale. Un portavoce del Cogat, Shimon Freedman, ha dichiarato che “è colpa delle Nazioni Unite” se i suoi carichi si sono accumulati sul lato di Gaza di Kerem Shalom a causa di “problemi logistici fondamentali non risolti”, in particolare la mancanza di camion.

L’Onu, da parte sua, nega tali accuse. I combattimenti tra Israele e Hamas spesso rendono troppo pericoloso il percorso dei camion verso Kerem Shalom. Il ritmo delle consegne è stato rallentato perché l’esercito ebraico deve autorizzare gli autisti a recarsi sul posto, un sistema che secondo Israele è stato pensato per la sicurezza dei conducenti. A causa della mancanza di sicurezza, in alcuni casi i convogli degli aiuti sono stati anche saccheggiati dalla folla mentre si muovevano lungo le strade di Gaza. Il nuovo accordo mira a ridurre la necessità di coordinare le consegne, fornendo una finestra ininterrotta di 11 ore ogni giorno affinché i camion possano entrare e uscire dal valico.

Usa vicini a un accordo con l’Arabia Saudita per la difesa

Tra le conseguenze più ampie della guerra di Gaza, spicca sicuramente il fatto che la reputazione securitaria di Israele come grande potenza del Medio Oriente è stata compromessa. Un bel problema anche per gli Usa, che sulla forza militare dello Stato ebraico hanno basato l’intera architettura di normalizzazione diplomatica messa in piedi con le monarchie arabe, tramite gli ormai celebri Accordi di Abramo. Questo impianto negoziale è tuttora in piedi, il che vuol dire che Israele non ha ancora subìto una sconfitta strategica, come invece avrebbe voluto l’Iran. Il supporto a Hamas, Hezbollah e Houthi era volto proprio alla distruzione degli Accordi di Abramo. Gli Stati Uniti si sono però mossi direttamente per scongiurare il peggio e mettere sul piatto la loro potenza securitaria. Uno degli obiettivi strategici americani è infatti fornire a Tel Aviv l’opportunità di un’integrazione regionale, che aprirebbe anche le porte a una più ampia integrazione nel mondo arabo. Oltre che a una “vera accettazione” di Israele nel mondo musulmano sunnita.

L’amministrazione Biden sarebbe vicina a concludere un accordo con l’Arabia Saudita, che comprenderebbe un’alleanza nel settore della Difesa in base alla quale Washington si impegnerebbe a fornire protezione a Riad in caso di attacco, in un momento in la minaccia iraniana sembra appunto crescere. Secondo il Wall Street Journal, che cita funzionari statunitensi e sauditi, gli Usa sperano che l’alleanza proposta faccia avanzare il processo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita. Ma questo, sottolineano le fonti statunitensi, dipende dall’impegno dello Stato ebraico nel promuovere la creazione di uno Stato palestinese e nel porre fine al conflitto a Gaza.

Le fonti riferiscono inoltre che, negli incontri tenuti da funzionari americani a Riad a maggio, le parti hanno concordato sulla maggior parte degli articoli del Trattato di Difesa proposto dagli Usa. Tra le altre cose, l’intesa dovrebbe impedire alla Cina di costruire basi in Arabia Saudita o di perseguire relazioni di sicurezza col Paese. Non solo: il testo prevede anche il sostegno degli Stati Uniti allo sviluppo di un programma nucleare civile saudita con arricchimento dell’uranio, anche se la questione non è stata ancora risolta definitivamente. Sarebbe in fase di elaborazione infine un accordo di difesa parallelo per aumentare la vendita di armi, la cooperazione di intelligence e la pianificazione strategica sulle minacce comuni, l’Iran in primis.