Si deve dire «ministro» o «ministra»: problema di linguaggio o c’è altro?

Indicare al femminile la professione svolta da una donna è più di una semlice questione linguistica

Nuovo governo, vecchi problemi. Quando si parla di ministri torna la questione del genere grammaticale da usare per le donne. Ecco perché non si tratta di una semplice questione linguistica.

Scrivere o dire ministro” o “ministra” non è la stessa cosa quando si tratta di donne. Per correttezza grammaticale, infatti, il ruolo svolto da una donna andrebbe indicato al femminile. Si tratta di una regola della grammatica italiana che impariamo alle scuole elementari: i termini che indicano gli individui di sesso maschile sono espressi con il genere grammaticale maschile, quelli che indicano individui di sesso femminile sono di genere grammaticale femminile.

Eppure, mentre tutti concordano nell’usare termini come maestra, infermiera, impiegata per le donne, si levano polemiche e alzate di scudi per ministra, sindaca, assessora e avvocata. Si dice che sono termini “brutti”, cacofonici. O più semplicemente non siamo abituati ad utilizzarli?

Il linguaggio non è neutro, ha una sua valenza ben precisa e con un significato profondo, più di quanto pensiamo. Negare dignità a termini come ministra e sindaca, continuando a utilizzare il maschile anche per le donne non è solo scorretto grammaticalmente ma implica anche il non voler riconoscere che quei ruoli possano essere svolti dalle donne.

L’uso del termine “ministra” per una donna non è affatto una storpiatura linguistica e nemmeno una “sterile” questione “politically correct”, ma consente di individuare correttamente che la persona a capo di un ministero è una donna. Si evitano così espressioni, queste sì vere storpiature, come “la ministro”, “il ministro è andata”.

Il termine ministro declinato al femminile permette di far comprendere subito che la persona di cui si parla è una donna. Inoltre, l’uso corretto dei generi grammaticali afferma la parità tra uomini e donne, anche nel riconoscimento delle differenze.

Se invece si insiste a utilizzare il genere grammaticale maschile anche per professioni o ruoli istituzionali svolti dalle donne, implicitamente si finisce con l’affermare che tali ruoli possono competere solo agli uomini. Declinarli al femminile, invece, significa riconoscere che le donne possono esercitarli a pieno titolo.

Del resto, anche l’Accademia della Crusca, la massima autorità in tema di lingua italiana, è stata chiara, sottolineando “l’opportunità di usare il genere grammaticale femminile per indicare ruoli istituzionali (la ministra, la presidente, l’assessora, la senatrice, la deputata ecc.) e professioni alle quali l’accesso è normale per le donne solo da qualche decennio (chirurga, avvocata o avvocatessa, architetta, magistrata ecc.) così come del resto è avvenuto per mestieri e professioni tradizionali (infermiera, maestra, operaia, attrice ecc.)”.

Si tratta di un importante passo in avanti per contrastare la disparità di genere, presente non solo nel linguaggio ma anche in campo economico e finanziario, soprattutto nel mondo del lavoro con gli uomini che percepiscono stupendi molto più elevati delle loro colleghe donne, anche a parità di responsabilità e mansioni.