Sanità, è fuga di internisti dagli ospedali: stipendi inadeguati e troppe aggressioni

Da un lato, le difficoltà di chi lavora nel Servizio Sanitario, dall’altro prospettive sempre meno attrattive per le nuove leve. Gli internisti spiegano quali specialisti mancheranno e perché

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Federico Mereta

Giornalista scientifico

Laureato in medicina e Chirurgia ha da subito abbracciato la sfida della divulgazione scientifica. Raccontare la scienza e la salute è la sua passione, perché crede che la conoscenza sia alla base di ogni nostra scelta. Ha collaborato e ancora scrive per diverse testate, on e offline.

Pubblicato: 11 Ottobre 2024 16:44

Medicina interna, Chirurgia generale, Pronto Soccorso. Stando alle stime degli esperti della Società Italiana di Medicina Interna (SIMI), in futuro potrebbe diventare sempre più difficile coprire le necessità del Servizio Sanitario Nazionale. Il tutto, mentre sale il burn out dei medici che si trovano sempre più esposti alle intemperanze (chiamiamole così) dell’utenza.
Dal Congresso della SIMI arrivano previsioni che fanno addensare nubi fosche sulla sanità, considerando che i reparti di medicina interna e di chirurgia generale sono la colonna portante anche degli ospedali più piccoli. Quest’anno la medicina interna non ha fatto l’en plein nell’assegnazione delle borse di specializzazione (solo il 79% di quelle a disposizione sono state coperte) e mentre il turn over dei medici diminuisce (quelli che vanno in pensione non sono rimpiazzati), aumenta di pari passo il loro burn out. Anche perché il pubblico manifesta un’ostilità crescente nei confronti dei camici bianchi e del personale sanitario, soprattutto al pronto soccorso e nei reparti.

Perché la sanità soffre

Da un lato, le difficoltà di chi lavora nel Servizio Sanitario. Dall’altro prospettive sempre meno attrattive per le nuove leve. Sono queste le coordinate di un combinato disposto che crea ansie per il futuro.
“Le cause di questo fenomeno – spiega Gerardo Mancuso, vice-presidente della SIMI – sono tante e vanno ricercate nei carichi di lavoro eccessivi, negli stipendi inadeguati al costo della vita ma soprattutto al tipo di responsabilità e di impegno che il lavoro di medico e di infermiere comportano, nelle difficoltà di carriera. Lavorare in ospedale in Italia oggi significa una vita di grandi sacrifici per uno stipendio che è inferiore fino al 40-50% rispetto ad altri Paesi europei, come la Francia. Ma differenze importanti si riscontrano anche tra il Nord e il Sud d’Italia; chi lavora in un ospedale del Nord-Est lavora molto di più che in quelli del Sud e questo genera una migrazione di personale medico e infermieristico che va ad impoverire sempre più il Sud”.

Capita quindi che i nuovi medici si orientino sempre di più all’attività libero-professionale. Una sanità insomma sempre più orientata al privato, con predilezione per le specialità con maggior sbocco nel privato, mentre altre sembrano destinate a soffrire. E’ il caso di microbiologia, biochimica patologia clinica, radioterapia, medicina e cure palliative, medicina nucleare, medicina d’emergenza urgenza, solo per citare alcuni esempi.

“I giovani medici – segnala Mancuso – sono meno attratti dalla sanità pubblica e lo dimostrano due dati su tutti: la riduzione del numero di specializzandi in medicina interna (quest’anno è stato coperto solo il 79% dei posti di specializzazione) e in chirurgia generale (assegnato solo il 51% dei posti di specializzazione). Queste due specialità, molto ambite e ritenute prestigiose in passato, oggi risultano sempre meno attrattive per i giovani. Ma andando avanti così nel prossimo futuro non saremo più in grado di gestire gli ospedali dedicati a queste attività. I 1.050 reparti di medicina interna in Italia devono essere gestiti da specialisti internisti; ma se manca il turn over perché i giovani non vogliono più fare gli internisti, in futuro assisteremo ad un’ulteriore contrazione dell’offerta assistenziale. E forse non dovremo neppure aspettare i prossimi anni. Già un’analisi di qualche anno fa evidenziava una contrazione del 22-23% delle risorse umane all’interno delle medicine interne”.

Si può invertire la tendenza?

Cosa fare, quindi? La ricetta di aumentare gli stipendi sarebbe molto facile, ma non basta perché andrebbe affrontata anche l’evidente disorganizzazione del lavoro, dovuta anche al fatto che l’ospedale continua a farsi carico di attività che dovrebbero essere gestite dal territorio. Quindi occorre ripensare molti aspetti ricordando, come ricorda il presidente SIMI Giorgio Sesti, che “non c’è ospedale, anche il più piccolo che non abbia un reparto di medicina e uno di chirurgia; questo lo prevede la normativa attuale, ma anche la nuova riforma del Ssn disegnata dal Pnrr.”

L’internista insomma è uno specialista presente in ogni ospedale. Ma la medicina interna è in crisi, così come lo sono anche tutte le specialità che richiedono il lavoro di corsia, di reparto, per non parlare dell’emergenza urgenza. Non è più possibile non affrontare i problemi alla base di questa fuga: stipendi inadeguati, il burn out, le denunce crescenti per colpa o risarcimento danni, le aggressioni. E in questo la politica deve intervenire: servono maggiori investimenti sul personale, una legge ancora più adeguata rispetto alle richieste di risarcimento danni per le attività mediche, che comprenda la depenalizzazione completa (fatta eccezione per dolo e colpa grave); una maggiore sorveglianza, sicurezza e prevenzione delle aggressioni, mettendo personale delle forze dell’ordine in tutti i pronto soccorso. Occorre insomma ridare dignità e un riconoscimento economico adeguato a chi svolge un’attività così pesante e di responsabilità. È l’unica via per far tornare ad essere appealing la medicina interna e quella d’emergenza-urgenza. Quello che chiediamo è di essere messi in condizione di interpretare al meglio la vera missione del medico, che è quella di far trovare, a chi ne ha bisogno, risposte ai suoi problemi”.

Occorre dire basta alla violenza

Medici e infermieri sono sempre più la prima e più vulnerabile interfaccia di una sanità che peraltro a volte non riesce ad offrire le risposte attese. Ma si tratta di un fenomeno non del tutto nuovo.
“Nel 2022 il Ministero della Salute ha istituito un ‘Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli esercenti delle professioni sanitarie’ – ricorda Mancuso, – con lo scopo di monitorare il fenomeno e promuovere delle garanzie”. Sulla base di questa attività, nel 2023 sono stati registrati 16 mila casi di violenza (2/3 di tipo verbale, il 26% di tipo fisico) ai danni degli operatori sanitari. Quelli maggiormente interessati da episodi di violenza sono stati gli infermieri, seguiti dai medici e dagli operatori socio-sanitari e in due casi su tre la violenza è stata perpetrata ai danni di donne (ma al Sud prevalgono i casi di violenza sui maschi). L’età delle persone aggredite è sotto i 50 anni e gli ambienti più a rischio sono il pronto soccorso, i reparti e i servizi psichiatrici. Nel 70% dei casi ad aggredire è stato un paziente, nel 28% i parenti”.

Contrariamente a quanto si possa pensare, le Regioni più interessate sono quelle del Nord (soprattutto la Lombardia). Le conseguenze di questi atti di violenza, oltre a quelle di ordine fisico, sono la comparsa di sintomi depressivi, di burn-out e la perdita di serenità sul lavoro, che può impattare sulle performance medico-infermieristiche.
“I trigger (cioè gli elementi scatenanti) più evidenti di questa ondata di violenza ai danni degli operatori sanitari – conclude Mancuso – sono il sovraffollamento del pronto soccorso, che vicaria sempre più spesso attività non pertinenti e la riduzione del personale sanitario. Negli ultimi 8 anni c’è stata una contrazione di circa 15 mila medici e 20 mila infermieri, e questo contribuisce a determinare l’allungamento delle liste d’attesa e a scatenare l’impazienza di chi afferisce in PS, pretendendo una valutazione clinica immediata, a prescindere dal codice del triage”.