Il MES, la crisi in Europa e il “Quantitative Easing”: intervista a Fabio Castaldo, Vicepresidente del Parlamento Europeo

INTERVISTA ESCLUSIVA - Fabio Massimo Castaldo, il Vicepresidente del Parlamento Europeo, racconta a QuiFinanza il difficile momento che l'Europa sta affrontando e quali soluzioni possiamo adottare

Foto di Andrea Bertolucci

Andrea Bertolucci

Giornalista esperto di Lifestyle

Classe 1990, Andrea Bertolucci è un giornalista e autore specializzato in cultura giovanile, lifestyle, società ed economia dell’intrattenimento. La sua attività professionale lo ha avvicinato negli anni ad alcune tra le principali redazioni televisive e web nazionali. Andrea è considerato uno dei maggiori esperti di cultura Trap nel nostro Paese.

Tra le varie sfide che l’Italia sta giocando in questo momento, ce n’è una molto difficile ma altrettanto importante, quella in Europa. Non è un caso che il dibattito politico interno al nostro Paese sia sempre più concentrato su termini nuovi, come MES e “Quantitative Easing”, che sono entrati prepotentemente nel gergo comune dell’economia del nostro e degli altri Stati membri.

La crisi asimmetrica, che non è attualmente solo economica ma anche sanitaria, rischia di rendere ancor più asimmetrica la ripartenza e la conseguente ripresa del nostro Paese. Molte sono le partite che l’Italia deve giocare in questo momento e nel prossimo futuro in Europa: noi ne abbiamo parlato con Fabio Massimo Castaldo, Vicepresidente del Parlamento Europeo.

Sono state annunciate una serie di misure per il rientro progressivo degli Eurodeputati: anche per il Parlamento Europeo è iniziata la fase due?
Il Parlamento Europeo non si è mai fermato durante periodo di lockdown, ma ha “rimodulato” la sua attività a distanza per consentire a tutti di lavorare in sicurezza. Infatti, se da un lato alcuni uffici e servizi hanno continuato la propria attività in Teleworking, attualmente non è più possibile lo svolgimento di eventi, audizioni e dibattiti pubblici, così come sono state sospese anche le visite che si tenevano quotidianamente nelle strutture del Parlamento e in quelle adiacenti. Queste attività non sono ancora riprese e non riprenderanno probabilmente fino a settembre in via precauzionale. Parallelamente, le Commissioni hanno continuato il proprio lavoro da remoto per assicurare sempre l’operatività dell’istituzione anche durante il periodo emergenziale. Se si fosse compiuta una scelta diversa si sarebbe messa in pericolo la stessa risposta europea alla pandemia con conseguenze gravissime. Le misure adottate i primi di maggio prevedono, inoltre, l’obbligatorietà della mascherina nei luoghi comuni e l’ingresso nei pressi del Parlamento nel rispetto della distanza interpersonale di 1 metro e mezzo, come anche la presenza di una sola persona per ufficio.

Come avete gestito le sedute durante la fase di lockdown?
Il Parlamento europeo si è trovato a fronteggiare una situazione mai nemmeno immaginata prima d’ora e che ha richiesto misure eccezionali a tutela di Deputati, collaboratori e funzionari. La prima misura introdotta, già dalla seduta della Plenaria di marzo, è stata la votazione e la partecipazione da remoto, mai sperimentata nella storia del Parlamento stesso. A questa scelta necessaria sono state affiancate misure per assicurare il distanziamento dei seggi in Aula e nelle varie Commissioni, ed è stata altresì introdotta la possibilità di votare e intervenire da remoto. Il Parlamento, insomma, non si è mai fermato, rimanendo operativo con modalità diverse da quelle ordinarie in modo da garantire la continuità della risposta europea anche in una fase così delicata.

Lei ha più volte parlato di questa non solo come un’emergenza sanitaria, ma come una vera e propria sfida esistenziale che determinerà il futuro dell’integrazione europea. In che modo secondo lei l’Italia si sta giocando, ma soprattutto si dovrà giocare questa partita?
L’Italia, finora, ha agito in modo coerente, serio e coraggioso e, il grande merito riconosciuto al Presidente Conte che ringrazio personalmente per le capacità negoziali dimostrate e soprattutto per la leadership, è stato quello di farsi promotore di un’alleanza di nove paesi firmatari della famosa lettera per una risposta congiunta alla crisi. In questo modo, viene rappresentata un’idea di Europa solidale che guarda al futuro e che vuole utilizzare questa crisi pericolosissima come un’occasione di integrazione e crescita partendo anche dall’annosa risoluzione del tema delle politiche fiscali, mancante nel loro coordinamento al livello europeo, arrivando al contrasto di veri e proprio paradisi fiscali come l’Olanda. Al tempo stesso, rilanciando sugli investimenti e difendendo l’impostazione del Green New Deal e dell’impostazione ecologica come strumento di maggiore competitività e non come un ostacolo, come invece vorrebbe qualcuno. L’Italia si pone come campione dell’europeismo vero, quello che rappresenta una sintesi equilibrata delle esigenze dei vari angoli del continente lanciata nell’ottica di una grande azione congiunta e comune, contrastata purtroppo da quei paesi ultranazionalisti che stanno tentando di sminuirne la portata. E questo non dobbiamo permetterlo.

Personalmente lei è preoccupato dalle conseguenze asimmetriche che – con ogni probabilità – assumerà la crisi nei diversi Paesi europei? Questa “crisi asimmetrica” rischia di rendere ancora più asimmetrica la ripartenza?
La crisi che stiamo vivendo, una crisi che sta mettendo a dura prova tutto il mondo a causa del Coronavirus rappresenta uno shock sanitario simmetrico, ovvero, una situazione che colpisce tutti a prescindere dalle condizioni di partenza. D’altra parte, però, anche alla luce delle drammatiche previsioni economiche annunciate, la crisi ha un ripercussioni asimmetriche nei diversi contesti nazionali. Per tale motivo è necessario realizzare un Fondo per la ripresa di notevoli dimensioni a sostegno delle aree geografiche dell’Europa più colpite. Un intervento la cui spesa dovrebbe essere ripartita sulla base di indicatori specifici, come la riduzione del Pil rispetto alla situazione pre-crisi, che riflettano l’entità dell’impatto della recessione sugli Stati membri. E questo per dare un diverso impulso alla ripartenza che sia tarato sulle differenti situazioni economiche. Ciò che bisogna rilevare, però, è che più della metà degli aiuti di Stato approvati dall’Ue vengono dalla Germania e questo rischia di aumentare il gap attualmente sussistente in termini di liquidità delle aziende tedesche rispetto a quelle. Per questo, l’intervento di ri-equilibratura del Recovery Fund è imprescindibile: vogliamo un fondo ampio nella capitalizzazione, che abbia una nettissima prevalenza di sovvenzioni sui prestiti e soprattutto vorremmo che gli investimenti siano rivolti preferibilmente ai settori a più alto moltiplicatore e cioè che determineranno i lavori del futuro a partire dal digitale e alla sostenibilità ambientale, passando per l’innovazione tecnologica e cioè indirizzandosi sulle professioni del futuro che garantiscano una ripartenza più robusta e più alti livelli occupazionali.

Parliamo del MES, che ha segnato una prima spaccatura all’interno della maggioranza: dopo una prima apertura avvenuta il 17 aprile, quali sono i prossimi step a cui è chiamato l’Europarlamento?
Da parte nostra le considerazioni non sono mai state ideologiche ma prettamente giuridiche ed economiche e ancora adesso permangono delle criticità evidenti. E questo stante il sistema di allerta rapida dell’articolo 13 del Mes e il sistema di sorveglianza rafforzata dell’articolo 14 del regolamento 472 del 2013. La risoluzione del Parlamento europeo, approvata lo scorso 17 aprile, sulle misure necessarie a contrastare le conseguenze della pandemia di coronavirus, prevedeva anzitutto l’invito alla Commissione a proporre un massiccio pacchetto di investimenti per sostenere la ripresa economica una volta passata la crisi. Un intervento che dovrà essere realizzato attraverso l’utilizzo di Recovery bond legati al bilancio dell’UE: ed è su iniziative come queste che stiamo impegnando tutte le nostre forze. Noi puntiamo a un fondo con una capitalizzazione molto robusta che superi anche i mille miliardi perché non possiamo accontentarci dei 500 miliardi della proposta franco-tedesca, sebbene ci sia un punto di partenza importante nell’accettazione di un debito condiviso, seppur temporaneo. Aspettiamo la proposta della Commissione ma ci batteremo pervicacemente anche per avere un nuovo sistema di entrate dell’Unione europea e di risorse proprio che non vada a gravare ulteriormente a gravare sui conti degli stati nazionali in un momento di difficoltà come questo.

Il Parlamento Europeo ha appena approvato l’erogazione di 3 miliardi di euro per aiutare dieci Paesi extra Unione europea ad affrontare la pandemia: in che modo e con quale finalità verranno erogati questi prestiti?
La solidarietà europea non deve fermarsi ai confini della nostra Unione perché, in questa crisi globale, o restiamo tutti in piedi o cadiamo insieme. Se non aiutiamo i nostri partner più stretti ad affrontare i problemi sanitari, il virus potrebbe ripresentarsi alle nostre porte e stavolta con effetti devastanti. Per tale motivo, abbiamo messo a disposizione di 10 paesi dell’allargamento e del vicinato 3 miliardi di euro sotto forma di assistenza macro-finanziaria, per sviluppare le loro iniziative in campo sanitario, sostenendo i programmi di ricerca e di prevenzione, e fronteggiare non solo le conseguenze economiche della crisi, ma anche quelle sociali. Il sostegno si concretizza attraverso prestiti a medio e lungo termine a condizioni altamente favorevoli. Fondi che contribuiranno a coprire le loro esigenze immediate di finanziamento quali l’assegnazione di risorse destinate alla protezione di famiglie, lavoratori e imprese colpiti dall’emergenza. Le misure, inoltre, si inseriscono nell’ambito della strategia “Team Europe”, che ha messo a disposizione 20 miliardi di euro per sostenere gli sforzi compiuti dai nostri Paesi partner per contrastare la pandemia di coronavirus. Ritengo questa sia la migliore espressione del principio di solidarietà europea, che dovrebbe essere alla base della nostra Unione tanto nelle politiche interne quanto in quelle delle relazioni esterne dell’Unione stessa alfine di rendere credibili i nostri partenariati strategici nei confronti dei paesi amici ed alleati.

Manfred Weber, capogruppo del Partito Popolare Europeo, ha rilasciato un’intervista a Repubblica nella quale ha parlato di un’ipotesi Italexit, che decreterebbe la fine dell’Ue. Personalmente vede possibile uno scenario del genere?
L’Europa non può esistere senza l’Italia, Paese fondatore dell’Ue, ma è anche vero il contrario. Il nostro è un Paese che esprime una quantità straordinaria di eccellenze, prodotti di qualità che esportiamo e che verrebbero penalizzati dall’introduzione di dazi sulle importazioni da parte degli altri paesi europei. E se il Made in Italy è uno dei nostri punti di maggior orgoglio non dobbiamo neanche dimenticare che al nostro sistema produttivo servono in maniera imprescindibile le materie prime che importiamo, che verrebbero rese proibitive da dazi in entrata. Per tutte queste ragioni, no, non credo si possa prefigurare uno scenario tale per cui l’Italia si sleghi dall’Europa: il grande rischio sarebbe di danneggiare irreversibilmente e colpevolmente il nostro sistema produttivo e tradendo l’impegno storico che il nostro Paese ha preso 60 anni fa. Fa bene Weber a ricordare i rischi connessi a un’implosione dell’Eurozona e dell’Unione europea qualora l’Italia dovesse essere sul punto di uscire; ma proprio per questo motivo dovrebbe fortemente attivarsi, come leader del gruppo del partito popolare europeo al Parlamento europeo per convincere proprio quei Governi come per esempio quello austriaco del suo collega Kurz a smetterla di aizzare una guerra ideologica che rischia di portare a una frattura definitiva tra Europa del nord ed Europa del sud, osteggiando ogni forma di solidarietà parlando solo di prestiti e non di trasferimenti a fondo perduto.

Alcuni Ministri europei, tra cui anche la nostra Ministra Catalfo, hanno di recente avanzato la proposta di un reddito minimo europeo: lei è d’accordo? La vede una misura realizzabile?
In Europa, il 9,6% dei lavoratori ha un salario inferiore rispetto alla soglia dei minimi contrattuali, dato che in riferimento all’Italia sale al 12%. Dati che devono far riflettere e sulla base dei quali sono convinto che l’istituzione di un salario minimo potrebbe essere la strada giusta da percorrere. Per questo, ritengo che la proposta della nostra ministra Catalfo e dei suoi omologhi spagnolo e portoghese Iglesias e Medez sia da sostenere. Come Movimento 5 Stelle abbiamo sempre sostenuto che fosse auspicabile la stesura di una direttiva quadro dell’UE per i salari dignitosi che fissi minimi salariali a livello nazionale, nel dovuto rispetto delle prassi di ciascuno Stato membro. Occorre un programma europeo per il calcolo di tali livelli salariali allo scopo di definirne di ufficiali a livello di Unione su base regionale in ogni Stato membro, mediante un metodo standardizzato – messo appunto dalla Commissione Europea – e utilizzato congiuntamente ai cosiddetti bilanci di riferimento e cioè contenitori di beni e servizi che sono considerati necessari per raggiungere uno standard di vita accettabile per una singola famiglia all’interno di un dato Paese, Regione o città.

Una domanda per concludere: lei personalmente come ha accolto la sentenza della Corte costituzionale federale tedesca che si è opposta alla BCE sul “Quantitative Easing”?
La sentenza della Corte costituzionale federale tedesca rappresenta una vera e propria ‘spada di Damocle’ che pende sull’operato della Bce, rischiando di infrangerne lo ‘scudo’. Cerchiamo di capire il perché. La Germania, nel 2009, ha sottoscritto il Trattato di Lisbona frapponendo alla totale accettazione di quest’ultimo, la teoria dei ‘contro-limiti. Alla luce di ciò, ora, i giudici di Karlsruhe concedono alla Bce tre mesi di tempo, con una vera e propria inversione dell’onere della prova, per dimostrare come lo strumento del QE (tecnicamente Public Sector Purchase Programme – PSPP) non sia in contrasto con gli artt. 20, 38 e 79 della Legge fondamentale. A prescindere dalle valide motivazioni che la BCE fornirà ai giudici tedeschi, quello che concretamente preoccupa è l’effetto che tale sentenza potrebbe avere nei confronti del Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP), il nuovo programma di acquisti di titoli di Stato da 750 miliardi di euro voluto dalla BCE per far fronte all’emergenza Covid-19. Il PEPP, infatti, presenta una flessibilità ancora maggiore in termini di rispetto dei vincoli rigidi della capital key e dell’issue limit previsti dal PSPP e, quindi, questa decisione potrebbe rappresentare un pericoloso precedente per eventuali futuri ricorsi. Per tutti questi motivi ritengo un clamoroso errore da parte della Corte costituzionale tedesca aver espresso una sentenza che si pone in contrasto con tutta la giurisprudenza dell’unione europea e che mette a repentaglio il principio di supremazia del diritto dell’Unione rispetto ai diritti nazionali, smentendo uno dei pilastri dell’ordinamento giuridico europeo. La Commissione dovrebbe agire, insisto, e se la Germania dovesse insistere dovrebbe mettere in procedura di infrazione la Repubblica federale tedesca stessa: l’applicazione delle regole deve essere uniforme per tutti, non ci possono essere stati che ottengono concessioni non attribuite agli altri.