Amazon & Co, perché i giganti del web pagano poche tasse in Italia

Secondo un rapporto di Mediobanca le multinazionali di Internet hanno pagato solo 64 milioni di euro al Fisco

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Pierpaolo Molinengo

Giornalista economico-finanziario

Giornalista specializzato in fisco, tasse ed economia. Muove i primi passi nel mondo immobiliare, nel occupandosi di norme e tributi, per poi appassionarsi di fisco, diritto, economia e finanza.

I colossi del web, come Amazon ed Apple, pagano, generalmente poche tasse all’Erario dello stato rispetto al loro fatturato. Ma quanto poche? A fare il punto della situazione ci ha pensato un’indagine effettuata da Mediobanca. Scopriamo cosa sta accadendo nel nostro paese.

L’indagine di Mediobanca sulle tasse pagate dai colossi del web

Sono colossi con fatturati miliardari ma di tasse pagano solo “pochi” milioni l’anno allo Stato italiano. Sono i giganti del web, quindici per la precisione, che secondo un rapporto di Mediobanca, nel 2018 hanno versato all’erario 64 milioni di euro. Poca roba, ma comunque qualcosa in più rispetto ai 59 milioni pagati nel 2017.

Google, Amazon, Microsoft, Facebook, Alibaba, Apple (non inclusa per la verità nel campione preso in considerazione da Mediobanca), rientrano tra le aziende definite “WebSoft”. Registrano fatturati in crescita vertiginosa con picchi anche del 300%, con incassi pari a 850 miliardi di euro a livello globale. Hanno le loro sedi anche in Italia, dove Mediobanca calcola un fatturato di 2,4 miliardi di euro.

Eppure il loro contributo alle casse dello Stato è misero, pari a circa il 2,7% dei ricavi, percentuale per altro in calo rispetto al 2017. Alcune di loro hanno pagato sanzioni per complessivi 39 milioni di euro per “riparare”. Secondo l’indagine di Mediobanca, l’aliquota media effettiva nel 2018 è pari al 14,1%, meno del 21% degli Stati Uniti e del 25% della Cina, dove hanno le loro sedi ufficiali (ma non quelle fiscali).

Questa possibilità di non versare le imposte in Italia è dovuta a molteplici fattori. In primo luogo i giganti del web tendono a spostare i ricavi delle controllate italiane in paesi con aliquote fiscali più contenute. C’è poi il fenomeno del cash pooling: le filiali italiane spostano parte della loro liquidità ad altre controllate magari in Paesi dalla fiscalità agevolata.

Infine, c’è la mancanza di una tassa specifica sui loro fatturati. La web tax era stata già introdotta con la Legge di Bilancio 2019 ma i decreti attuativi necessari per la sua entrata in vigore non furono mai emanati. Nella Legge di Bilancio 2020 viene nuovamente introdotta, questa volta senza la necessità di decreti attuativi, dunque entrerà immediatamente in vigore. L’aliquota è pari al 3%.

Ma non è finita. L’ultimo comma della Legge di Bilancio in realtà passa la palla agli organismi sovranazionali, perché in esso si legge che nel caso in cui subentrino accordi internazionali per disciplinare le imposizioni fiscali ai colossi di internet, la web tax italiana si intende abrogata.

La difesa di Amazon

Tuttavia c’è chi come Amazon si difende, sostenendo di pagare quanto dovuto. L’azienda ha fatto sapere di versare il giusto all’Erario, considerando che i profitti sono spesi per gli investimenti che stanno facendo nel nostro Paese e che porteranno a breve altri 1.000 posti di lavoro. In sostanza, dice Amazon, non solo paga le tasse dovute, ma l’importo è persino più alto di quello stimato dal rapporto, tanto che l’aliquota dichiarata dal re dell’e-commerce è del 24%.

Intanto, il dibattito politico prosegue in attesa dell’approvazione della Legge di Bilancio: se per Fratelli d’Italia l’aliquota al 3% è ridicola, per il ministro dem Francesco Boccia al Governo va dato il merito di aver affrontato la questione, in attesa che arrivi una proposta internazionale che metta tutti d’accordo.