Comprendere Benito Mussolini attraverso le sue frasi celebri

Le ragioni, la politica e la mentalità di Benito Mussolini, analizzate attraverso l'analisi delle sue frasi più celebri, passate alla storia

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Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

Ci sono alcuni argomenti in Italia che sembrano intoccabili, eppure passano di mano in mano e di bocca in bocca con proverbiale leggerezza. Uno di questi è sicuramente il Fascismo, incarnato nella figura di Benito Mussolini. Una presenza ingombrante e centrale nella storia del Novecento italiano, che ancora oggi genera dure prese di posizioni e vibranti polemiche e parlando del quale bisogna pesare molto attentamente le parole. Con un comandamento supremo: distinguere la verità storica dalle opinioni.

Come ogni grandissimo capitolo della nostra storia, anche quello mussoliniano porta a valle tonnellate di fake news che nel corso degli anni si sono cristallizzate e sono arrivate addirittura a identificare il modo di pensare e di agire fascista. Comprese le frasi attribuite al Duce, alcune vere, altre mai pronunciate. Gran parte circolano ancora oggi.

Da “chi si ferma è perduto” a “Boia chi molla”

Alcune frasi storicamente pronunciate da Mussolini risalgono al suo periodo socialista: nel 1914, quando abbraccia l’interventismo cambiando radicalmente posizione sulla guerra, il poco più che trentenne Benito fonda il giornale “Il Popolo d’Italia” e scrive nel titolo d’apertura “Popolo italiano, corri alle armi!”. Una frase magari giudicata anonima dai più, ma significativa della svolta militarista e nazionalista di Mussolini all’alba della Prima Guerra Mondiale, che verrà estremizzata nello squadrismo e nella violenza sistemica dopo il 1918 fomentando il malcontento popolare per la cosiddetta “vittoria mutilata”.

Ma le citazioni più celebri e diffuse attribuite a quello che è diventato poi dittatore sono sicuramente altre. “Chi si ferma è perduto” è sicuramente una delle frasi emblematiche del Fascismo. Ma com’è nata? È vero che Mussolini la fa risuonare al microfono durante un discorso a Genova, il 14 maggio 1938, ma la sua genesi è precedente e incerta. Sicuramente non dantesca, tutt’al più dannunziana. Il poeta novecentesco aveva ripreso l’antico motto latino “memento audere semper”, altra grande cometa retorica fascista, poi italianizzato in “Chi si ferma è perduto”.

Questo come altri motti associati al regime fascista non sono stati inventati nel Ventennio, ma in alcuni casi hanno anche attraversato i secoli venendo ripresi dapprima nel primo Dopoguerra. La grande disfatta di Caporetto nel 1917 aveva dato impulso decisivo a tutte quelle frange che volevano “correggere” l’Italia, giudicata troppo debole e marcia a causa di “rossi” e “militari corrotti”. Le frasi “forti” hanno cominciato così a circolare con sempre maggiore frequenza fra i soldati semplici e negli ambienti politici, fin nella fasce più umili della popolazione.

Boia chi molla” ne è un altro esempio. Anche in questo caso l’origine è dibattuta. Alcuni storici affermano che sia un motto nato negli ultimi giorni della Repubblica Napoletana del 1799, nella battaglia contro l’esercito sanfedista, mentre altri lo fanno risalire agli scontri in strada durante le Cinque Giornate di Milano del 1848. Le fonti più numerose e attendibile fanno invece risalire l’espressione alla Prima Guerra Mondiale, urlata da un sergente proprio durante la ritirata italiana dopo la Battaglia di Caporetto, nel novembre 1917. Anche in questo caso, c’è chi sostiene la paternità di Gabriele D’Annunzio. Constatato il grande successo suscitato tra le masse “arrabbiate”, Mussolini se ne fregia e ne fa uno dei motti principali del Fascismo e delle forze armate della Repubblica di Salò.

Le altre frasi fasciste: quali sono di Mussolini?

Appare dunque complesso attribuire con certezza frasi e citazioni alla sola mente di Benito Mussolini. Non foss’altro che il Duce si era circondato di grandi intellettuali e comunicatori, primo fra tutti il filosofo Giovanni Gentile, che scrisse a quattro mani col suo capo la definizione stessa del fascismo sulla neonata enciclopedia Treccani.

Sembrano invece mussoliniani al 100% le perentorie sentenze prive di verbo che dettano regole e stile di vita, in pieno stile totalitaristico: “Dio, patria, famiglia”, “credere, obbedire, combattere” e “libro e moschetto, fascista perfetto”. Quest’ultima è un motto ideato nel 1927 in occasione dell’inaugurazione della Libreria del Littorio a Roma, attribuita da alcuni esperti anche a Leo Longanesi.

La seconda frase è sicuramente la più autografa, mentre le altre sono, al solito, reinterpretazioni e rilancio di antichi concetti già in voga tra il popolo. “Meglio un giorno da leone che cent’anni da pecora” non fa eccezione: il motto, divenuto celeberrimo con Mussolini, è invece attribuito all’ignoto “fante del Piave” e, più verosimilmente, pensato e fatto scrivere dall’ufficio di propaganda del Regio Esercito dopo la Grande Guerra sui muri delle case distrutte dai combattimenti. La frase divenne talmente famosa ed emblematica del “nuovo corso” incarnato dal Fascismo che nel 1928 finì sulla moneta da 20 lire.

Una frase in tutto e per tutto mussoliniana è, invece, “governare gli italiani non è difficile, è inutile”. Il dittatore la pronunciò durante un’intervista rilasciata a Emil Ludwig nel 1932, e poi raccolta nel volume “Colloqui con Mussolini”. C’è infine una frase che, al contrario, viene largamente utilizzata nel definire il popolo italiano, ma che pochi associano a Benito Mussolini: “Italiani, popolo di santi, di eroi, di poeti e di navigatori”. Il leader fascista la pronunciò in un discorso il 2 ottobre 1935 contro le Nazioni Unite, che allora rappresentavano l’alleanza militare fra gli Stati occidentali opposti all’Asse e che avevano condannato l’Italia per l’aggressione all’Abissinia.