Smart working, solo 1 su 10 lavora da casa

L'Osservatorio INAPP fotografa una veloce riduzione del lavoro da remoto dopo il boom della pandemia ma le potenzialità sono tante ed il rapporto potrebbe salire a 4 su 10.

Foto di QuiFinanza

QuiFinanza

Redazione

QuiFinanza, il canale verticale di Italiaonline dedicato al mondo dell’economia e della finanza: il sito di riferimento e di approfondimento per risparmiatori, professionisti e PMI.

Secondo uno studio diffuso ad una giornata di studi organizzata dall’Inapp in Italia potrebbero svolgere il lavoro da remoto almeno 4 dipendenti su 10, mentre al momento risulta che solo un occupato su dieci lavora da casa. L’analisi, in particolare, ha evidenziato che sulla limitata diffusione dello smart working incide il differente grado di fattibilità del lavoro da remoto nelle diverse professioni: la quota del lavoro da remoto varia dal 25% per le professioni intellettuali o esecutive al 2% di quelle non qualificate. La percentuale è anche legata alla differente capacità manageriale di adottare nuovi modelli organizzativi, più ridotta nelle piccole e medie imprese. E poi c’è la questione del cambio di regolamentazione del lavoro da remoto, prorogato in forma semplificata solo per i fragili e per chi ha figli minori di 14 anni.

I numeri del rapporto

In Italia appena il 14,9% degli occupati svolge parte l’attività alternando il lavoro in presenza e quello da remoto, ma potrebbe essere quasi il 40% considerando potenzialmente le prestazioni che si potrebbero effettuare a distanza. Si tratta di una quota consistente quindi, circa 2,5 milioni su 19 milioni di dipendenti. In piena pandemia, nel 2020, nel giro di un anno si passò – secondo i dati dell’osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano – da 570mila smart worker del 2019 fino a 6,5 milioni, pari a circa un terzo dei lavoratori dipendenti. Nel 2021 solo il 13,3% delle imprese intervistate ha utilizzato tale modalità. A svolgere un lavoro eseguibile in modalità da remoto sono soprattutto i laureati, i dipendenti delle imprese di grandi dimensioni, gli occupati nei servizi e i dipendenti pubblici. Incidenze leggermente superiori alla media si registrano tra le donne, tra i residenti nel Nord Ovest e nel Centro e tra le persone con diploma.

Occasione persa

“È un’occasione non pienamente sfruttata, almeno per il momento – ha commentato il presidente di Inapp, Sebastiano Fadda –. Svolgere una professione teoricamente lavorabile da distanza è una condizione spesso necessaria, ma non sufficiente, perché si abbia la possibilità di sperimentare lavoro da remoto. Dai dati non emerge quel cambio di paradigma lavorativo che la pandemia sembrava aver innescato, almeno nel nostro Paese: è come se durante la pandemia avessimo vissuto in “una grande bolla” e il ritorno alla normalità stesse vanificando le potenzialità del lavoro a distanza, a causa di una ridotta capacità di introdurre radicali innovazioni nell’organizzazione del lavoro che preveda una combinazione di fasi di lavoro da remoto con fasi di lavoro in presenza”.

Le ragioni della poca diffusione

L’Inapp ha spiegato che su questa ridotta diffusione del lavoro agile  di adottare nuovi modelli di organizzazione del lavoro che poggino su nuove policy aziendali e facciano  uso delle nuove tecnologie digitali, in un Paese come l’Italia dove le Pmi sono assai diffuse.  Guardando al settore privato extra-agricolo, per le imprese fino a 5 dipendenti l’84% dei lavoratori svolge mansioni che non possono essere eseguite a distanza, ma al crescere della dimensione aziendale questa quota si riduce: il 56,4% dei lavoratori svolge prestazioni non “remotizzabili” tra le imprese medie con 50-249 addetti e il 34,2% fra le realtà con oltre 250 addetti.