Violenza di genere e lavoro: licenziato dopo il patteggiamento

Licenziato per aver patteggiato in un procedimento penale, la Cassazione dà ragione al datore di lavoro e spiega perché nell'ordinanza n. 24140 del 9 settembre scorso

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Claudio Garau

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Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

Quanto accade nella propria vita privata può avere gravi ripercussioni nel rapporto di lavoro, e condurre anche al licenziamento. Non basta insomma rispettare le disposizioni del contratto collettivo e del regolamento aziendale, ma bisogna condurre un’esistenza improntata al rispetto della dignità della persona, per non rischiare guai seri con il datore di lavoro.

Ne sa qualcosa un uomo che si è rivolto alla magistratura per impugnare un atto di recesso per ragioni disciplinari, motivato dalla scoperta di alcuni fatti extralavorativi, integranti violenza di genere. Di seguito ripercorreremo in sintesi la vicenda in oggetto, che ha portato all’emissione dell’ordinanza della Cassazione n. 24140 del 9 settembre scorso, e faremo luce sulle ragioni per cui si può rischiare concretamente il posto anche per responsabilità e colpe che non hanno nulla a che fare con il proprio lavoro.

Il caso concreto

Come indicato nel testo della sentenza della Suprema Corte sopra citata, il datore di lavoro – l’azienda di trasporto pubblico di Roma – aveva sanzionato con immediata sospensione a tempo indeterminato, e senza salario, un suo autista di mezzi, per aver appreso della condanna di quest’ultimo per i reati di violenza di genere (per cui è previsto un congedo ad hoc) e atti persecutori nei confronti dell’ex moglie. Da ciò l’azienda aveva desunto l’incompatibilità dell’uomo con i compiti connessi allo svolgimento di un servizio pubblico, quale il trasporto passeggeri su autobus.

Non solo. Ad ulteriore discredito del lavoratore, nel corso del percorso giudiziario ha avuto un oggettivo peso l’ordinanza del tribunale di sorveglianza di Roma con la quale:

a seguito di sentenza di patteggiamento era stato disposto nei suoi confronti l’affidamento in prova ai servizi sociali con obbligo di rincasare presso la propria abitazione entro le 22:00 nonché di non uscire prima delle ore 7:00.

E a peggiorare ancora la situazione del dipendente dell’azienda, anche l’imposizione del divieto di avvicinamento alla donna vittima dei reati integrati da atti persecutori, minacce e molestie.

Ricordiamo che il patteggiamento, detto anche applicazione della pena su richiesta delle parti, tecnicamente:

  • consiste in un procedimento speciale alternativo al rito ordinario;
  • consente all’imputato di accordarsi con la Procura sull’entità della sanzione da scontare.

Di fatto il patteggiamento si concretizza in una rinuncia dell’imputato a contestare l’accusa per avere uno sconto di pena, ma presuppone comunque un’ammissione di responsabilità.

Le violazioni alla base del licenziamento e le difese del dipendente

Nel testo della sentenza la Corte sottolinea che al caso in oggetto, per i connotati di gravità che esso presenta, non possono essere applicati i commi 4 e 5 dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Al lavoratore non spetta dunque alcun diritto alla reintegra o al risarcimento danni, ma anzi – confermando la linea già assunta dai giudici di merito che si sono occupati della vicenda – la Cassazione ha affermato che sono piuttosto applicabili i punti 6 e 7 dell’art. 45 di un testo assai datato come il Regio decreto 148/1931.

Il provvedimento racchiude norme in tema di personale dei trasporti e, in particolare, ai punti citati giustifica l’allontanamento definitivo dal posto di lavoro – la cd. destituzione dal servizio – di chi:

per azioni disonorevoli od immorali, ancorché non costituiscano reato o trattisi di cosa estranea al servizio si renda indegno della pubblica stima,

o di chi:

sia incorso in condanna penale, sia pure condizionale, per delitti, anche mancati o solo tentati, o abbia altrimenti riportata la pena della interdizione dai pubblici uffici.

Il dipendente aveva impugnato il licenziamento disciplinare, affermando che il patteggiamento non è una condanna penale vera e propria e, per questo, non può essere considerato fondamento dello stop al rapporto di lavoro, dovendosi preferire una più blanda sanzione disciplinare di natura conservativa (ad es. sospensione).

La decisione della Cassazione

La Suprema Corte non ha accolto la richiesta del lavoratore, tecnicamente l’ha cioè rigettata rimarcando quanto segue:

Quanto […] alla valenza della cd. sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p., deve ribadirsi il consolidato principio affermato da questa Corte (Cass. n. 3980/2016; Cass. n. 30328/2017) secondo cui la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., pur non configurando una sentenza di condanna, presuppone comunque una ammissione di colpevolezza, sicché esonera la controparte dall’onere della prova e costituisce un importante elemento di prova per il giudice di merito.

Nella vicenda in esame, la Cassazione ha chiarito che i fatti accertati rientrano nei punti 6 e 7 dell’art. 45 del Regio Decreto n. 148/1931, che – come visto sopra – permette il recesso o la destituzione dal servizio.

Più nel dettaglio, la condotta violenta del dipendente del trasporto pubblico – tale da sollevare riprovazione sociale – ha condotto all’insanabile rottura del rapporto fiduciario con il datore di lavoro, determinando un legittimo licenziamento per giusta causa.

La Corte ha riconosciuto così la correttezza delle decisioni dei giudici di merito, escludendo quanto richiesto dal lavoratore, vale a dire l’applicazione degli artt. 41 e 42 del Regio Decreto n. 148/1931, che dispongono una mera sanzione conservativa e non espulsiva.

Conclusioni

In sintesi, la Corte di Cassazione ha sancito la legittimità del licenziamento disciplinare inflitto al dipendente del servizio di trasporto pubblico, che abbia precedentemente patteggiato la pena per un reato caratterizzato dalla violenza di genere.

Infatti tale illecito penale è in grado di incrinare irreparabilmente il rapporto di fiducia con il datore di lavoro. Quest’ultimo è quindi giustificato nel pensare che il proprio dipendente non sia o non sia più in grado di assicurare un’adeguata prestazione di lavoro e un diligente, rispettoso e pronto servizio al pubblico.

La Corte ha così confermato la fondatezza dell’allontanamento del dipendente, rimarcando che anche i reati compiuti al di fuori dell’ambito lavorativo possono portare alla legittimo stop del rapporto.