Le dimissioni per fatti concludenti tornano con il Ddl Lavoro, cosa rischiano i dipendenti

Le dimissioni per fatti concludenti prevedono che, per il lavoratore, un periodo di assenza ingiustificata e prolungata venga equiparato alle dimissioni volontarie

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Mauro Di Gregorio

Giornalista politico-economico

Laurea in Scienze della Comunicazione all’Università di Palermo. Giornalista professionista dal 2006. Si interessa principalmente di cronaca, politica ed economia.

Pubblicato: 15 Dicembre 2024 18:31

Con l’approvazione in Senato del Ddl Lavoro collegato alla Legge di Bilancio, tornano nell’ordinamento italiano le dimissioni per fatti concludenti, altresì note come “dimissioni tacite”.

In sintesi, chi si assenta dal lavoro per più di 15 giorni, salvo diverso termine previsto dal Ccnl di appartenenza, è come se avesse presentato le dimissioni volontarie.

Il datore di lavoro non dovrà dunque avviare alcuna procedura di licenziamento perché viene sottinteso che il contratto di lavoro è stato risolto per volontà unilaterale, e implicita, del dipendente.

Si perde il diritto alla Naspi

Il lavoratore che agisca in tale modo perderà il diritto a richiedere la Naspi, cioè l’indennità di disoccupazione. Il datore di lavoro viene sollevato dall’obbligo di versare il ticket Naspi e non rischia un’impugnazione del licenziamento. Naturalmente, il datore di lavoro conserva la facoltà di poter procedere al licenziamento anche prima dei fatidici 15 giorni. Spetta inoltre all’Ispettorato del lavoro effettuare i controlli del caso per verificare se l’assenza sia effettiva.

Assenza ingiustificata e licenziamento

Il termine dei 15 giorni fissato dalla normativa è anche più morbido rispetto a quello indicato dai contratti collettivi: in genere nei Ccnl i termini prevedono la possibilità di licenziamento per giusta causa in caso di assenza ingiustificata del lavoratore per oltre 3 giorni, ma ci sono differenze sostanziali fra il settore pubblico e quello privato per quanto riguarda il licenziamento per assenza ingiustificata. Per i dipendenti pubblici, l’art. 55-quater del D.Lgs. n. 165/2001 prevede che si possa procedere al licenziamento in caso di assenza ingiustificata per un numero di giorni, anche non continuativi:

  • superiore a 3 in un biennio;
  • superiore a 7 negli ultimi 10 anni.

Nel settore privato, sono i Ccnl a fissare i limiti perché si possa procedere al licenziamento per assenza ingiustificata e, come anticipato, in genere si tratta di tre giorni.

Ma oltre a normativa e contratti c’è anche la giurisprudenza della Cassazione, che ha spiegato come nella materia non vada applicato un automatismo, ma che occorra bilanciare la proporzionalità della sanzione alla condotta del lavoratore.

L’accertamento dell’Ispettorato

A fronte dell’assenza ingiustificata del dipendente, il datore di lavoro manda una comunicazione all’Inl (Ispettorato Nazionale del Lavoro) competente per territorio. L’Ispettorato riceve la segnalazione e avvia l’accertamento, avendo facoltà di contattare il lavoratore per sentire la sua versione dei fatti. In assenza di valide giustificazioni (o in caso il dipendente non dovesse presentarsi all’appuntamento) gli ispettori accertano le dimissioni per fatti concludenti.

Eccezioni

La procedura non si risolve con le dimissioni per fatti concludenti se l’assenza del lavoratore è imputabile a cause estranee alla sua volontà (come ad esempio un grave incidente al quale sia seguito un ricovero in rianimazione) o in caso il datore di lavoro non abbia predisposto un adeguato canale di comunicazione o si sia reso irreperibile.

Criticità

Esistono poi almeno due criticità. La prima riguarda il fatto che, come è stato accennato, settori diversi prevedono parametri differenti per quanto riguarda le assenze ingiustificate. C’è poi il ruolo dell’Ispettorato, che ha solo la facoltà, e non anche l’obbligo, di intervenire per verificare la situazione. Ciò potrebbe portare a disparità di trattamento da parte dell’Inl fra lavoratori che si siano trovati nella stessa situazione.