Il dipendente ruba? L’azienda può licenziare anche senza condanna penale

In caso di appropriazione indebita di cose o beni di terzi durante il proprio lavoro, il dipendente paga con il licenziamento in tronco. La conferma della Cassazione

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

Pubblicato: 16 Aprile 2025 11:11

Non è indispensabile essere puniti per un reato commesso in ufficio e avente a oggetto i beni aziendali, per rendere valido un licenziamento per giusta causa. Basta la semplice ammissione della violazione disciplinare. Questo ha stabilito la Corte di Cassazione con un provvedimento del 27 marzo scorso, a seguito della contestazione del recesso unilaterale da parte di un dipendente di una Srl.

C’è quindi una distinzione di fondo tra responsabilità penale e responsabilità disciplinare, poste su due piani differenti e non collegati, tanto che il datore di lavoro può emettere la massima sanzione ai danni del suo dipendente, senza dover aspettare o “sperare” in una sentenza di condanna penale.

Vediamo allora da vicino l’ordinanza n. 8154 della Suprema Corte sezione Lavoro, per capire meglio quali sono i poteri dell’azienda in casi di appropriazione indebita da parte di un dipendente.

La vicenda in sintesi e le decisioni di primo e secondo grado

Un lavoratore aveva impugnato in tribunale il licenziamento in tronco, inflitto per essersi appropriato, per far fronte a esigenze personali, della somma di 1.300 euro – prelevata dalla cassa del punto vendita in cui svolgeva il suo lavoro. In particolare, l’uomo sosteneva che, per configurare l’illecito disciplinare di appropriazione previsto dal codice disciplinare aziendale, fosse obbligatoria la presenza di tutti gli elementi tipici del reato di appropriazione indebita di cui alla legge, tra cui:

  • dolo specifico;
  • definitività dell’appropriazione.

Di conseguenza, egli chiedeva l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento con il riconoscimento delle tutele conseguenti. Ebbene, in primo e secondo grado, i giudici competenti hanno confermato la correttezza della scelta aziendale, ritenendo legittima la sanzione espulsiva.

In particolare, la Corte d’Appello ha spiegato che il licenziamento in tronco era stato correttamente inflitto, in applicazione di quanto previsto nel codice disciplinare che, come si legge nell’ordinanza della Cassazione:

contempla l’immediata sanzione espulsiva allorché il lavoratore si renda responsabile di appropriazione nel luogo di lavoro di beni o denaro aziendale o di terzi anche di modico valore, attesa la rilevanza specifica dell’elemento fiduciario nel rapporto di lavoro.

Sostanzialmente il giudice di merito ha considerato il codice disciplinare una fonte di regole già – di per sé – completa e sufficiente a giustificare la massima sanzione disciplinare per i casi di appropriazione indebita, a prescindere da ogni possibile conseguenza penale e dall’accertamento di una responsabilità penale.

La pronuncia della Cassazione e il ruolo dell’art. 2119 del Codice Civile

Dello stesso esito è il provvedimento della Suprema Corte, che ha spiegato che le conclusioni del secondo grado non sono state efficacemente contrastate dal lavoratore licenziato. Quest’ultimo, infatti, non ha tecnicamente dimostrato la violazione dei criteri legali di interpretazione o la presenza di vizi di motivazione nella sentenza della Corte d’Appello, in merito al contenuto della disposizione del codice disciplinare sul licenziamento per appropriazione indebita.

Soltanto in questi termini, infatti, l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata – attività riservata al giudice di merito – sarebbe stata censurabile in Cassazione, per ottenere una sentenza favorevole. Ma, evidentemente, il giudice del secondo grado aveva redatto una sentenza “inattaccabile”.

E, a ben vedere, l’espressa previsione della “giusta causa” di recesso dal contratto – nell’art. 2119 Codice Civile – dimostra che il legislatore ha inteso inquadrare in modo autonomo le conseguenze disciplinari, ossia l’immediato stop del rapporto di lavoro, rispetto a quelle penali.

La Suprema Corte sottolinea che:

nell’area della “giusta causa” di cui all’art. 2119 c.c. confluiscono infatti tutti i comportamenti che determinano il venir meno del rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore tali da non consentire la prosecuzione del rapporto, rispetto ai quali risulta tendenzialmente indifferente il rilievo, penale o meno, delle condotte; ciò anche in presenza di ipotesi astrattamente assimilabili sul piano del fatto materiale all’illecito penale.

Nel confermare la pronuncia di merito la Cassazione scrive – quindi – che, per aversi la violazione disciplinare della sottrazione di beni o di denaro dell’azienda, non occorre che vi siano tutti gli elementi del reato in oggetto. Perciò non rileva – rimarca la Corte citando il suo precedente 5633/2001 – se l’illecito integri il reato consumato di furto o appropriazione indebita, oppure soltanto il tentativo.

La conclusione della Cassazione appare tanto più condivisibile se pensiamo che il giudice di merito aveva ottenuto l’ammissione da parte del lavoratore di aver tenuto la condotta di appropriazione contestata:

in relazione alla quale esula ogni necessità della sussistenza del dolo specifico così come della definitività dell’appropriazione, tipici viceversa della fattispecie delineata dall’art. 646 c.p.

Perché il licenziamento può essere immediato

Il diritto del lavoro opera autonomamente da quello penale e – perciò – l’appropriazione di beni di terzi in sé rende legittimo il licenziamento in tronco, perché evidente spia di una irreparabile violazione dei doveri fiducia, lealtà e diligenza nel rapporto di lavoro.

L’espulsione del dipendente può essere immediata, a prescindere dal rilievo penale del comportamento e non rilevano quindi – contrariamente a quanto affermato dal dipendente licenziato – né la presenza del dolo specifico né la definitività dell’appropriazione, bastando il semplice impossessamento di cose altrui.

Interessante notare che questa pronuncia non è la prima in materia e, anzi, questo orientamento aderisce alla precedente giurisprudenza, Si pensi all’ordinanza n. 35109/2024, che aveva già affermato come la specifica natura dell’attività di gestione della cassa e il collegato interesse aziendale a una sua corretta gestione, fondino il caratteristico vincolo fiduciario nei rapporti lavorativi. Se questo vincolo viene danneggiato, ben si giustifica il licenziamento in tronco.

In altre parole, il datore di lavoro non deve augurarsi la condanna penale del dipendente che si è impossessato di beni o cose non sue ma – in piena aderenza al suo legittimo interesse alla corretta gestione aziendale – potrà senza indugio esercitare il potere disciplinare.

Che cosa cambia

La Cassazione, con l’ordinanza n. 8154 del 27 marzo 2025, ha così respinto il ricorso del lavoratore, confermando la giustezza del licenziamento per giusta causa. Ma soprattutto ha ricordato a tutti, datori di lavoro e dipendenti, che reato e illecito disciplinare si “muovono” su due piani autonomi e distinti per finalità.

In termini pratici, questo vuol dire che le regole, le clausole e le conseguenze sanzionatorie nei codici disciplinari aziendali vanno – quindi – lette in modo slegato dalle corrispondenti figure penalistiche, a patto che – nello stesso codice – non ci sia un espresso rinvio alla legge penale.

Si tratta di una importante precisazione della giurisprudenza della Cassazione, di grande aiuto per l’interpretazione dei codici disciplinari da parte di aziende, lavoratori e parti sociali.