Covid, alterazioni del cervello anche a distanza di un anno: lo studio

Una ricerca tutta italiana ha osservato in circa la metà dei pazienti presi in esame la persistenza di disturbi cognitivi a un anno dal contagio

Alterazione del metabolismo del cervello e accumulo di molecole tossiche per i neuroni. Sarebbero questi alcuni dei fattori determinanti per la persistenza della nebbia mentale e dei disturbi di memoria dopo l’infezione da Covid. È quanto emerge da una ricerca coordinata dall’Università degli Studi di Milano e condotta con la collaborazione del Centro Aldo Ravelli della Statale, l’Asst Santi Paolo e Carlo e l’Irccs Auxologico. I risultati dello studio, pubblicati su Journal of Neurology, offrono nuovi spunti sui danni a lungo termine del virus.

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La ricerca sulle alterazioni post Covid del cervello

Gli scienziati hanno preso in considerazione complessivamente sette pazienti che un anno prima erano stati ricoverati per Covid. A ormai dodici mesi dalle dimissioni, presentavano ancora disturbi cognitivi mai lamentati prima della malattia, tra cui nebbia e stanchezza mentale o disturbi di concentrazione.

I ricercatori attraverso specifici test neuropsicologici hanno valutato le conseguenze cognitive (memoria, attenzione, linguaggio), il funzionamento del cervello e la sua attività metabolica e, in un caso, anche la deposizione di molecole tossiche per i neuroni. In poco meno della metà del campione sono state rilevate delle precise alterazioni.

Dai referti è infatti emerso che tre pazienti avevano un ridotto funzionamento delle aree temporali (sede della funzione della memoria), del tronco encefalico (sede di alcuni circuiti che regolano l’attenzione e l’equilibrio) e delle aree prefrontali (che regolano l’energia mentale, la motivazione e, in parte, il comportamento). Uno dei volontari presentava inoltre un disturbo cognitivo più grave: attraverso un esame speciale è stata visualizzata nel cervello la deposizione di amiloide.

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L’ipotesi di una degenerazione neurologica

Come spiegato dal Luca Tagliabue, direttore della divisione di Medicina Nucleare e Radiodiagnostica dell’Asst Santi Paolo e Carlo, “l’amiloide è una proteina che quando si accumula nei neuroni ne determina l’invecchiamento precoce e la degenerazione implicata nella malattia di Alzheimer“.

Nel paziente esaminato è stato rilevato un enorme accumulo di questa proteina, in particolar modo nei lobi frontali e nella corteccia cingolata, aree legate a funzioni cognitive complesse e alle emozioni. L’osservazione dell’aumento di amiloide potrebbe derivare dalla relazione diretta all’infezione oppure all’innesco da parte della malattia della cascata neurodegenerativa. Un dato che dovrà essere accertato prossimamente da nuovi studi.

Le conclusioni della ricerca

Ciò che ha confermato la ricerca è che a un anno dal Covid possono esserci ancora alterazioni funzionali delle aree cerebrali temporali, frontali e del tronco dell’encefalo. Nel caso dei restanti pazienti i disturbi cognitivi “non hanno un riscontro funzionale sul cervello, ma possono derivare da modificazioni di tipo esclusivamente psicologico analoghe al disturbo post-traumatico da stress“, ha evidenziato Roberta Ferrucci, docente di psicobiologia dell’Università Statale Milano.

Vincenzo Silani, docente di Neurologia della Statale e direttore del Dipartimento di Neuroscienze dell’Irccs Auxologico, ha spiegato che i risultati offrono “un ventaglio di ipotesi interpretative del danno post-Covid”, ponendo le basi “per una valutazione diversificata del paziente nel lungo termine”.

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