Le ondate di calore non sono una novità. A partire dal tragico evento del 2003 (che causò oltre 20.000 decessi in Europa di cui circa 4.000 in Italia), la Sanità pubblica ha posto crescente attenzione a questo fenomeno. Da allora sono stati sviluppati strumenti di sorveglianza e allerta sempre più strutturati per prevenire gli effetti sanitari del caldo estremo, oggi amplificato dal cambiamento climatico. In questo senso, numerosi sono gli appelli lanciati per creare la necessaria protezione per la popolazione, con particolare attenzione alle fasce più deboli e fragili per età, patologie o condizioni economiche.
Non per nulla la Società Italiana di Igiene, Medicina Preventiva e Sanità Pubblica (SItI), in un periodo che ha visto ripetersi livelli di allerta elevati in numerose città e, purtroppo, diversi decessi correlati, ha richiamato l’attenzione sull’importanza di adottare misure di prevenzione efficaci, sia individuali che collettive.
In questo senso, occorre considerare con attenzione i cosiddetti parametri del microclima come temperatura, ventilazione e umidità. Ovviamente, il mantenimento di condizioni ambientali ottimali passa anche attraverso l’impiego dei condizionatori e degli umidificatori, vera e propria salvezza per il mantenimento di una migliore (se non ottimale) temperatura corporea. E vanno impiegati bene, con le necessarie manutenzioni, cercando di sfruttarne i benefici ma senza voler calare a temperature troppo basse.
C’è però un altro aspetto che non si deve sottovalutare. Ed è quello dell’impegno economico legato alla diffusione di questi dispositivi, anche in ambito domestico. Quanto può impattare la diffusione di queste apparecchiature sul pianeta? E soprattutto, quanto potrebbe creare disparità anche in questo senso sul fronte economico e della salute? Uno studio apparso su Journal of Environmental Economics and Management prova a dare alcune risposte in questo senso.
Indice
Cosa emerge
La ricerca è stata condotta da un team internazionale – tra cui Enrica De Cian e Giacomo Falchetta del CMCC e dell’Università Ca’ Foscari Venezia, e Filippo Pavanello. E fornisce la prima valutazione empirica su scala globale dell’impatto del possesso di condizionatori d’aria sui consumi elettrici domestici, analizzando 25 Paesi che rappresentano il 62% della popolazione mondiale e il 73% dei consumi elettrici globali.
L’indagine, come riporta una nota dello stesso CMCC, rivela che l’adozione crescente dell’aria condizionata come strategia di adattamento farà aumentare significativamente i consumi elettrici residenziali in tutto il mondo, con importanti implicazioni economiche, ambientali e di equità. Pensate: in primo luogo va detto che l’uso di condizionatori aumenta in media del 36% i consumi elettrici domestici a livello globale. Poi ci sono le previsioni: la diffusione dei condizionatori passerà dall’attuale media globale del 28% al 41-55% entro il 2050.
Il tutto, va ricordato, con un tasso di accesso all’aria condizionata diseguale tra i vari Paesi. Ad esempio, nelle nazioni africane si registreranno tassi di diffusione tra il 9% e il 15%, ben al di sotto della media globale.
Cosa succede alle famiglie
Sempre secondo lo studio, il consumo elettrico per il raffreddamento potrebbe raggiungere 976-1393 TWh (TheraWatt/Ora) all’anno nel settore residenziale, generando ulteriori 670-956 Mt di emissioni di CO₂, paragonabili alle emissioni annuali di grandi nazioni industrializzate, come la Germania o l’Indonesia. Le famiglie a basso reddito nei Paesi in via di sviluppo usano fino all’8% del loro budget per il raffreddamento, mentre quelle ad alto reddito spendono solo tra lo 0,2% e il 2,5% per l’uso dell’aria condizionata. L’aria condizionata ha un impatto maggiore sui consumi elettrici residenziali rispetto ad altri fattori, inclusi reddito, prezzi dell’elettricità e altri elettrodomestici come frigoriferi e televisori.
“Con l’innalzamento delle temperature, la domanda di aria condizionata per rimanere freschi è in aumento tra le famiglie e farà crescere notevolmente i consumi elettrici residenziali a livello globale, con implicazioni economiche come la povertà energetica da raffreddamento e l’inquinamento ambientale”
segnala nel comunicato stampa di Fondazione CMCC Falchetta.
Il rischio delle cooling poverty
Sul fronte energetico, lo studio rivela come la presenza dei condizionatori aumenti in media del 36% i consumi elettrici domestici a livello globale. Entro il 2050, la domanda globale di elettricità residenziale per il raffreddamento potrebbe raggiungere quasi 1.400 TWh/anno – paragonabile ai consumi elettrici totali dell’India nel 2020 – con conseguenti emissioni aggiuntive di CO₂ tra 670 e 956 Mt e costi associati tra 124 e 177 miliardi di dollari.
Ma in qualche modo, di fronte alle emergenze climatiche che si attendono sempre più frequenti, va detto che si rischia di creare un vero e proprio “burden” finanziario per le famiglie a basso reddito. Dalla ricerca emerge infatti la possibilità che si crei “cooling poverty”, legato all’insostenibilità del peso finanziario del raffreddamento per le famiglie a basso reddito. Lo studio rivela che mentre le famiglie ad alto reddito destinano tra lo 0,2% e il 2,5% delle proprie spese all’uso dell’aria condizionata, quelle più povere possono arrivare a spendere fino all’8% del proprio budget per l’elettricità destinata al raffreddamento.
“Nei Paesi in via di sviluppo, una parte significativa delle famiglie che adottano l’aria condizionata avrà redditi bassi e dovrà affrontare pesanti oneri di spesa per ottenere un livello accettabile di comfort termico, alimentando lo spettro della cooling poverty”
osserva Falchetta. Lo studio dimostra che il cooling poverty è un indicatore emergente della povertà energetica in un clima che si riscalda, colpendo in particolare le popolazioni vulnerabili nelle regioni in via di sviluppo. Sebbene la diffusione dell’aria condizionata sia destinata a crescere dall’attuale media globale del 28% al 41-55% entro il 2050, rimarranno forti disparità, con tassi di penetrazione nei Paesi africani inferiori al 15%.