Israele uccide il numero due di Hamas e ritira i primi soldati da Gaza: come cambia la guerra

I raid di Israele in Libano e l'uccisione di Saleh al Arouri portano la tensione alle stelle in Medio Oriente. Esplosioni e decine di morti in Iran. L'Egitto si sfila dalla mediazione per la pace

Pubblicato: 3 Gennaio 2024 18:28

Foto di Maurizio Perriello

Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

Israele è in difficoltà. Non tanto dal punto di vista militare, vista la supremazia di arsenale e capacità belliche (non pienamente sfruttate), ma per i molteplici fronti che ne minacciano l’integrità. Il conflitto a Gaza, i dissidi interni al governo Netanyahu, gli attacchi yemeniti nel Mar Rosso, i pericoli di escalation e allargamento degli eventi bellici oltre confine.

Solo qualche giorno fa (ne abbiamo parlato qui), lo Stato ebraico si era detto pronto a impegnarsi su sette fronti: Gaza, Libano, Siria, Cisgiordania, Iraq, Yemen e Iran. Quest’ultimo è tornato a minacciare prepotentemente Tel Aviv dopo l’uccisione da parte israeliana del numero due di Hamas, Saleh al Arouri, in un raid sferrato in Libano contro postazioni di Hezbollah. Un episodio che rischia di scatenare la tempesta perfetta in Medio Oriente, proprio nel momento in cui Israele ritira alcune truppe dalla Striscia. Il tutto mentre il bilancio dell’orrore a Gaza sale a oltre 22.300 morti e più di 57mila feriti. Cosa sta succedendo.

L’uccisione in Libano di al Arouri e di altri leader di Hamas

L’allargamento del conflitto è già ampiamente in essere. Oltre che nella Striscia e in Cisgiordania, Israele ha compiuto raid anche in Siria e in Libano. Proprio a Beirut lo Stato ebraico ha colpito al cuore Hamas, uccidendo non solo il numero due del movimento islamista al Arouri, ma anche funzionari militari e responsabili del maxi attacco del 7 ottobre.

L’attacco ha provocato la morte anche di Samir Effendi, conosciuto come “Abu Amer”, capo della divisione tecnologica dell’organizzazione terroristica in Libano e responsabile dell’azione militare di Hamas nel sud del Paese. A perdere la vita è stato inoltre Azzam al-Aqra, delle Brigate Qassam, ritenuto da Israele come l’organizzatore in Libano degli attacchi terroristici contro lo Stato ebraico. Secondo la tv israeliana Kan, gli altri uccisi sono Muhammed Shahin, Muhammad al Rayes e Muhammad Bashasha, membri del gruppo armato Al Jamaa al-Islamyia, che opera tra Libano e Siria ai confini con Israele. L’ultimo è Ahmed Hammoud, membro di Hamas. Secondo i media israeliani, a Beirut lo stesso 2 gennaio i rappresentanti di Al Jamaa al-Islamyia avevano avuto un incontro con i leader di Hamas. Non si trovava invece nell’appartamento colpito da un missile Halil al-Haya, che le prime notizie annoveravano invece tra le vittime.

A confermare la morte di Saleh al Arouri per mano di un drone “intelligente” israeliano sono stati i miliziani di Hezbollah. Sul generale islamista pendeva una taglia da 10 milioni di dollari, raddoppiata in seguito al maxi attacco del 7 ottobre rispetto a quella stabilita dagli Usa nel 2015. Prima Arouri aveva passato oltre 22 anni nelle prigioni israeliane, fino al 2007. Fonti libanesi hanno sottolineato come il trasferimento di al Arouri in Libano nel 2018 abbia determinato l’ascesa di Hamas nel Paese sia a livello politico sia militare. Il numero due del movimento fondamentalista, inserito nella lista dei “terroristi su scala globale”, rappresentava una minaccia troppo consistente per Israele, che ha così ottenuto un successo da sbandierare in una patria vessata da malcontento popolare e forti dissidi politici. Successo amplificato dalla propaganda di Netanyahu e dal fatto che gli altri leader di Hamas, Yahya Sinouar e Mohammed Deif, risultano irreperibili. L’uccisione di al Arouri ha tuttavia fatto scoppiare proteste e scioperi in Cisgiordania e provocato la risposta dei nemici di Israele, Iran in primis.

Escalation e allargamento del conflitto: cosa succede in Medio Oriente

La mossa di Israele contro i vertici di Hamas ha ampliato ulteriormente la distanza col mondo arabo, con il quale stava normalizzando i rapporti prima dell’escalation militare inaugurata il 7 ottobre. Anche con Stati inseriti nella sfera di mediazione occidentale, come l’Egitto. Il Cairo ha infatti ufficialmente informato Israele di aver congelato il proprio ruolo di mediatore tra lo Stato ebraico e le fazioni palestinesi nei negoziati sugli ostaggi. L’Egitto è infatti preoccupato dell’ulteriore escalation nella sua regione in quanto controllore del Canale di Suez e perché è alle prese con una delle peggiori crisi economiche della sua storia recente. Il conflitto israelo-palestinese rappresenta in questo senso un “punto di forza” per il governo di al-Sisi, che così può sfruttare il caos bellico per rafforzare il suo potere.

L’altro fronte bollente per Israele si è aperto a sud, nello Stretto Bab el-Mandeb, choke point stretegico per il passaggio di navi nel Mar Rosso. Qui gli Houthi sferrano dallo Yemen continui attacchi contro cargo e imbarcazioni, costringendo la coalizione occidentale a intraprendere “azioni dirette” di controbombardamento. La prima risposta in questo senso è stata compiuta dagli Stati Uniti, con gli elicotteri delle navi USS Eisenhower e USS Gravely hanno affondato tre imbarcazioni Houthi per proteggere la portacontainer Maersk Hangzhou. Anche il segretario della Difesa britannico Grant Shapps ha dichiarato la disponibilità del Regno Unito a colpire le milizie attive in Yemen.

Tuttavia non tutti gli alleati sembrano intenzionati a partecipare attivamente all’iniziativa americana Prosperity Guardian, pensata per proteggere militarmente il traffico commerciale attraverso lo Stretto di Bab el-Mandeb. Gli interessi nazionali sono troppo variegati e, su venti Paesi che hanno sottoscritto l’accordo di coalizione, soltanto dieci invieranno navi militari nel Mar Rosso. Tra questi figurano anche Italia e Francia, che impiegheranno una fregata a testa nell’ambito di missioni nazionali. La stanchezza generale dell’Occidente a supportare a oltranza Israele e Ucraina riflette tuttavia la stanchezza degli Usa nel gestire troppi fronti di guerra. Un elemento, questo, che risulterà decisivo per i conflitti del 2024, anno di elezioni presidenziali anche in Russia (con Putin che sarà rieletto).

Esplosioni in Iran: decine e decine di morti durante un pellegrinaggio

Uccidendo un leader di Hamas fuori dalla Striscia, Israele ha poi accettato il rischio di uno scontro diretto con Hezbollah, il cui apparato militare è almeno dieci volte più potente di quello di Hamas. Scontri e raid tra Libano e Stato ebraico non sono mancati negli ultimi tre mesi, in una sorta di “escalation controllata” come affermato dal reporter Pierre Haski, ma adesso la situazione con Hezbollah rischia davvero di precipitare verso la guerra convenzionale. Per quest’ultima servirà comunque l’ok dell’Iran, sostenitore finanziario e guida politico-spirituale, che non ha mancato di recapitare minacce crescenti a Israele.

Soprattutto dopo l’uccisione di uno degli ufficiali di alto rango dei Guardiani della Rivoluzione, il generale Razi Moussavi, in un altro attacco israeliano oltre confine, stavolta in Siria. E ancor di più dopo le esplosioni, definite un “attacco terroristico”, registrate nei pressi della tomba del massimo comandante pasdaran Qassem Soleimani a Kerman. Decine di persone sono morte, tra le migliaia che si erano recate al cimitero in occasione del quarto anniversario della morte del generale, avvenuta a Baghdad nel 2020 in un attacco di droni americani. Le esplosioni sono state provocate da due cariche esplosive collocate in punti diversi della strada percorsa dai pellegrini in corteo.

Per gli iraniani ci sono pochi dubbi. “I terroristi dietro l’esplosione nel cimitero di Kerman sono mercenari di potenze arroganti (termine che l’Iran usa per gli Stati Uniti e i suoi alleati, ndr) e
saranno certamente puniti”, ha affermato il capo della magistratura iraniana, Gholamhossein Ejei. Il leader di Hezbollah, Hasan Nasrallah, ha parlato invece di “evidente responsabilità di Israele”. I venti di guerra insomma spirano sempre più forti e l’intervento diretto dell’Iran nel conflitto mediorientale si fa sempre più plausibile.

Ritiro di alcune truppe: la nuova tattica militare di Israele

Se da un lato continua a condurre raid dentro e fuori la Striscia di Gaza, dall’altro Israele sembra ridurre il suo impegno nell’enclave palestinese per quanto riguarda i mezzi terrestri. Lo Stato ebraico ha infatti iniziato a ritirare carri armati e truppe dalla zona della città di Gaza. Un mero cambio di tattica militare che non prelude in alcun modo alla fine della guerra, che anzi Israele è intenzionata a portare avanti “fino alla distruzione totale di Hamas”. E di Gaza, dunque.

Un funzionario israeliano ha dichiarato all’agenzia di stampa Reuters che le operazioni militari nella Striscia entreranno presto nella loro terza fase, che dovrebbe durare circa sei mesi. Una svolta nel conflitto che consente di solito agli eserciti regolari la rotazione delle truppe, che per Israele avrà anche la funzione di far ripartire l’economia dello Stato ebraico, “messa in pausa” dal richiamo massiccio al fronte di professionisti e lavoratori. Altri soldati sono stati invece trasferiti al confine nord con il Libano, in vista di una più che probabile escalation con le milizie di Hezbollah.

La prima fase del conflitto, iniziata subito dopo gli attacchi sferrati da Hamas il 7 ottobre, è stata caratterizzata da massicci attacchi aerei “per spianare la strada alle truppe di terra” e da operazioni per cercare di evacuare la popolazione civile della Striscia in aree dedicate a sud. La seconda fase ha invece visto l’offensiva israeliana di terra vera e propria, inaugurata il 27 ottobre. Queste operazioni sono scattate dopo che il recupero di “un tesoro di informazioni” sul campo di battaglia che hanno consentito di svelare i segreti di Hamas (come abbiamo fatto anche noi qui). Questa intelligence in tempo reale ha rivelato in dettaglio l’ubicazione delle installazioni e dei tunnel di Hamas, compreso il modo in cui il gruppo armato opera sotto terra. La terza fase, annunciata dal funzionario israeliano, sarà invece all’insegna da attacchi mirati contro gli uomini di Hamas nel territorio della Striscia e raid a tappeto nelle zone in cui l’intelligence ha segnalato la loro presenza.