Lavoro in nero, come fare: quali “prove” servono

Come possono tutelarsi quei lavoratori che non hanno un contratto scritto e che non vengono pagati

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

Alcuni anni fa la pandemia colpì il mondo del lavoro nel suo complesso, ed anche il ‘nero’ – lo ha segnalato dall’Istat in uno dei suoi report sull’economia non osservata – ne risentì. Ma con il ritorno alla normalità e l’abbandono delle restrizioni legate al pericolo sanitario, il mercato del lavoro in Italia diede segnali di forte ripresa – come indicato dallo stesso Istituto nelle sue periodiche analisi.

Basti pensare al dato del numero di occupati a gennaio 2024, che ha superato quello di gennaio 2023 dell’1,6% (registrando un +362mila unità). A salire, però, sono stati anche i numeri del lavoro nero: secondo recenti stime dell’ufficio Studi Cgia di Mestre, infatti, nel nostro paese sono oltre tre milioni i soggetti che, quotidianamente, svolgono un’attività lavorativa del cd. sommerso, costituendo un tasso di irregolarità pari al 12,8%.

In uno scenario come questo, i diritti e le tutele dei lavoratori – e delle lavoratrici – sono messe in serio rischio e – pertanto – come possono proteggersi quei dipendenti, che non hanno un contratto scritto e non vengono pagati? Quali prove sono necessarie per accertare che un datore di lavoro o azienda ha dato luogo ad un rapporto di lavoro irregolare, e nascosto agli occhi del Fisco? Vediamo insieme che cosa c’è da sapere.

Lavoro nero, di che si tratta

Prima di capire come fare a contrastare il fenomeno con i mezzi assicurati dalla legge, facciamo chiarezza sugli elementi che lo costituiscono. Quando si può parlare di lavoro nero o lavoro irregolare? Ebbene, esso consiste nell’assai discutibile prassi di avvalersi di competenza, professionalità ed esperienza di lavoratori dipendenti, senza però aver reso nota l’assunzione agli enti preposti, da ciò generandosi una serie di conseguenze negative sul piano dei contributi Inps, dell’assicurazione Inail e non solo.

Tecnicamente, il lavoro nero – di cui abbiamo già parlato con specifico riferimento al Sud – ricorre quando un datore di lavoro sfrutta le prestazioni professionali di una persona che, di fatto, assume ma senza far sottoscrivere alcun contratto di lavoro. Non ci sono firme, non ci sono dati scritti e – soprattutto – non ci sono garanzie e coperture previdenziali e assicurative per colui che – per risparmiare – viene volutamente celato agli occhi delle Entrate, dell’istituto di previdenza e dell’Inail.

Obblighi dell’azienda e conseguenze del lavoro nero

Le regole in materia impongono a ciascun datore di lavoro di spedire una comunicazione telematica ad hoc, la cd. Unilav. Quest’ultima andrà spedita al Ministero, entro le ore 24 del giorno anteriore a quello di inizio rapporto.

È chiaro che l’adempimento in oggetto è utile a render noto a tutti gli enti preposti (in particolare Ministero, Inail, Inps), che si sta per avviare un rapporto di lavoro dipendente. Se questa comunicazione non si compie, lo Stato non potrà venire a conoscenza della nuova attività di lavoro. Per questo potrà parlarsi di lavoro ‘sommerso’ o, appunto, nero.

In una situazione così, la violazione della legge è palesata dal mancato pagamento dei contributi all’Inps e delle tasse all’Erario. In sostanza, il lavoro irregolare rappresenta un danno per lo Stato, che non potrà raccogliere le entrate spettanti, ma anche per il lavoratore.

Infatti questi, ‘sfruttato’ dal datore di lavoro, potrà rischiare concretamente di vedersi accreditato un assegno pensionistico di importo inferiore, proprio a causa dei periodi di lavoro nero e, in particolare, del mancato versamento dei contributi. Senza contare le ipotesi, tutt’altro che rare, in cui l’azienda non versa neanche gli stipendi (adducendo come scusa le difficoltà economiche contingenti).

Lavoro in nero, quali “prove” servono per dimostrarlo

Viste queste premesse di certo non ‘favorevoli’ per il lavoratore, come fare a dimostrare l’esistenza del lavoro nero? Pensiamo a colui che, disoccupato, viene convinto a svolgere delle mansioni, senza aver firmato in precedenza alcun contratto e magari perché costretto da necessità economiche: in questi casi in che modo trovare tutela, se non vi è alcun ‘pezzo di carta’ che testimonia l’avvenuto avvio del lavoro? Come recuperare le somme dello stipendio non versato da chi, oltre a non pagare tasse e contributi per risparmiare, compie l’ulteriore ‘azzardo’ di non pagare chi ha svolto il proprio lavoro?

Vero è che un dipendente non regolarizzato potrebbe essere portato a pensare che senza prova scritta – non essendovi di fatto un contratto firmato dalle parti – sia assai arduo, se non impossibile, essere in grado di dimostrare l’esistenza di rapporto di lavoro, pur sommerso. D’altronde basti pensare alla consegna del denaro che, quando vi è, se per lavoro nero avviene tipicamente in contanti.

Ma la verità è un’altra e, fortunatamente, è dalla parte del lavoratore o della lavoratrice dipendente.

Le prove utilizzabili per acclarare l’esistenza del lavoro nero saranno sia quelle scritte, che quelle orali. Ci riferiamo in particolare alla testimonianza, ad es. di un qualche fornitore dell’azienda o di un cliente, oppure alla confessione del datore di lavoro che si è reso responsabile dell’avvio di un rapporto di lavoro irregolare.

Ma, tra gli elementi utili alla prova del lavoro nero, vi sono anche i messaggi di chat sul cellulare, le fotografie e le registrazioni video o audio, ossia quel materiale da cui comunque emerge un legame tra datore di lavoro e lavoratore – e dunque la presenza del rapporto di lavoro nascosto ad Inps, Inail ed Agenzia delle Entrate.

Anche il tracciamento dei dati Gps usati dalla generalità degli smartphone potrà essere utile alla prova da parte del lavoratore subordinato. Infatti la tecnologia Gps consente di sapere, con esattezza, il luogo in cui una persona si trova in un dato giorno e ad una certa ora, consentendo di provare i turni di lavoro pur non ‘verbalizzati’.

L’avvio della causa in tribunale e l’escamotage dell’offerta conciliativa

Rimedio di primario riferimento, in questi casi, sarà l’avvio della causa in tribunale, il cui scopo è accertare il diritto al versamento degli arretrati e attraverso cui dimostrare l’orario di lavoro (orario di cui al Ccnl di categoria, va dimostrato per conseguire il riconoscimento delle somme spettanti).

L’avvocato prescelto per ottenere tutela presenterà quindi un ricorso in tribunale, ma occhio alle scadenze, sebbene siano ‘larghe’: per fare causa c’è tempo fino a 5 anni dalla fine del rapporto di lavoro in nero. Dopodiché scatterà la prescrizione e, conseguentemente, il lavoratore non potrà più rivendicare alcunché.

Inoltre attenzione anche a quanto segue: raccolti gli elementi utili a sostenere la propria tesi in giudizio, e a dimostrare dunque l’esistenza del lavoro nero (leggi qui di quando parlammo di un condono in tema), il passo successivo potrebbe non essere il ricorso in tribunale, presso il giudice del lavoro. Infatti, compiuti i conteggi di quanto spettante da parte del consulente del lavoro a ciò incaricato – e verificate le prove a disposizione – il legale potrà far pervenire una diffida e messa in mora per il pagamento di quanto dovuto.

In questa fase può succedere che l’azienda – per evitare il contenzioso – e dunque per scansare conseguenze potenzialmente più dolorose, presenti una propria offerta conciliativa. In ipotesi di accordo, il contenzioso si concluderà sul nascere, appunto con una conciliazione ed il versamento degli importi pattuiti.

Qualora invece l’offerta non sia ritenuta all’altezza o, semplicemente, non vi sia, lo step successivo sarà il ricorso in tribunale, secondo le consuete formalità. Le regole indicano che, in prima udienza, il magistrato – sentite le parti – effettuerà una proposta di conciliazione, ad accettazione libera.

In caso negativo, e quindi con il mancato assenso di una o di entrambe le parti, sarà compito del magistrato decidere chi ha ragione e chi torto, sulla scorta dei documenti e delle prove presentate. Ecco perché le prove del lavoro nero, di cui abbiamo detto sopra, potranno rivelarsi decisive. Qualora il giudice ne tenga conto, potrà disporre il recupero crediti verso l’azienda e imporre la regolarizzazione dei contributi Inps.

Pertanto, laddove in giudizio si provasse l’esistenza di un rapporto di lavoro in nero, per il datore di lavoro il conto sarebbe notevolmente salato poiché, per regolarizzarsi, oltre agli stipendi egli sarà tenuto a pagare:

  • le ferie
  • il trattamento di fine rapporto (TFR)
  • i permessi
  • i contributi previdenziali Inps.

Lavoro in nero, in tribunale ma non solo: le strade alternative

Ricordiamo infine che le alternative alla causa ordinaria non mancano:

  • conciliazione presso un sindacato
  • conciliazione davanti all’Ufficio Territoriale del Lavoro

Si tratta di una doppia strada che riduce i tempi e, soprattutto, a costo zero. Scegliere uno di questi due iter alternativi al giudizio, comunque, non escluderà la possibilità di avviare una causa ordinaria in un momento successivo. E come abbiamo visto sopra, la conciliazione potrà essere disposta anche dal giudice del lavoro, all’avvio del procedimento in tribunale.