Non sempre aziende e datori di lavoro si comportano in modo corretto con i propri dipendenti. Basti pensare ai casi in cui un licenziamento disciplinare viene usato come strumento punitivo, anche quando il comportamento del lavoratore non lo giustifica davvero.
Con l’ordinanza n. 8857 del 3 aprile 2025, la Corte di Cassazione – sezione Lavoro ha chiarito che è da considerare ritorsiva la scelta di licenziare un dipendente che ha testimoniato contro l’azienda, solo perché quella testimonianza non coincideva con la versione dei fatti sostenuta dal datore di lavoro.
Il caso in questione ha alcune caratteristiche particolari: riguarda una testimonianza resa in un altro processo e un lavoratore che era già stato licenziato in passato dalla stessa azienda. Ma al di là della vicenda specifica, offre spunti importanti per capire come funziona – e come dovrebbe funzionare – il rapporto tra impresa e lavoratore. Vediamo meglio di cosa si tratta.
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Licenziato dopo la testimonianza in Tribunale
Un dipendente di un’azienda farmaceutica ha impugnato in giudizio il licenziamento disciplinare ricevuto dopo l’apertura del relativo procedimento. Secondo l’azienda, il lavoratore avrebbe rilasciato dichiarazioni false durante una testimonianza resa in un processo promosso da un collega contro la stessa società, relativo alle modalità di svolgimento del contratto di agenzia.
Tuttavia, come rileva la Cassazione, la tensione tra le parti affonda le radici in una precedente controversia tra lo stesso lavoratore e l’azienda. In quel caso, sia il Tribunale sia la Corte d’Appello avevano riconosciuto la natura subordinata del rapporto, applicando l’art. 61 del d.lgs. n. 276 del 2003. Il dipendente, già licenziato ingiustamente, era stato reintegrato per ordine del giudice.
Ritenendo di essere stato nuovamente allontanato in modo illegittimo, il lavoratore ha impugnato il secondo licenziamento, chiedendo l’accertamento dell’intento ritorsivo e l’annullamento del provvedimento. A suo dire, la società lo avrebbe punito per aver testimoniato in modo scomodo, cioè non allineato alla versione dell’azienda, nella causa intentata dal collega.
Nessuna giusta causa, era una ritorsione
Sia in primo grado che in appello, i giudici hanno ritenuto che il recesso unilaterale non fosse sorretto da una reale giusta causa, ma fosse la diretta conseguenza della testimonianza resa dal lavoratore.
Inoltre, come sottolineato dalla Cassazione, il giudice davanti al quale era stata resa la deposizione non aveva trasmesso alcuna notizia di reato all’autorità giudiziaria. Né la società aveva presentato denuncia per falsa testimonianza. In altre parole, nessuna falsità era stata accertata in sede giudiziale e nessuna iniziativa penale era stata avviata dall’azienda.
La corte d’appello, confermando il primo grado, ha quindi accolto la domanda del lavoratore, ritenendo il licenziamento illegittimo. Lo ha fatto mettendo in luce il carattere ritorsivo della sanzione, osservando che:
il lavoratore è stato licenziato per aver reso una testimonianza ritenuta dal datore di lavoro falsa in quanto contrastante con i propri assunti difensivi.
La testimonianza, quindi, era stata solo un pretesto per giustificare un licenziamento disciplinare che non era fondato su una giusta causa, ma sulla semplice volontà di vendetta. A questo punto, l’azienda ha fatto ricorso in Cassazione.
La sentenza della Suprema Corte
I giudici di merito hanno ritenuto il licenziamento ritorsivo dopo aver accertato l’assenza di una giusta causa, ovvero di una falsità comprovata nella testimonianza resa in tribunale nella causa promossa da un altro ex agente.
Secondo la Suprema Corte, il licenziamento è stato irrogato per un unico motivo illecito, cioè una reazione alla precedente vittoria giudiziaria ottenuta dallo stesso lavoratore. Ecco perché, nell’ordinanza, si legge che:
il motivo illecito, secondo l’accertamento compiuto dalla Corte territoriale, risulta essere stato effettivamente unico, esclusivo e determinante.
Non solo. Dalla motivazione della sentenza impugnata, emerge che la tempistica del secondo licenziamento e la sua connessione con le vicende della prima causa sono stati dati di fatto fondamentali per il giudice nel riconoscere l’intento ritorsivo del datore di lavoro.
Ricapitolando, la sezione Lavoro della Suprema Corte ha dichiarato la nullità del licenziamento, rigettando il ricorso dell’azienda, confermando la sentenza d’appello e riconoscendo la volontà ritorsiva alla base del provvedimento.
Cosa cambia per i lavoratori
Questa pronuncia della Cassazione è importante per tutti i lavoratori, perché ribadisce che testimoniare in un processo è un dovere civico: una volta chiamati e prestato giuramento, si ha l’obbligo legale di dire la verità. La falsa testimonianza è un reato – che, in questo caso, non è stato nemmeno ipotizzato.
Licenziare un dipendente per ritorsione legata a una testimonianza che non è stata dimostrata falsa, anche se sgradita all’azienda, costituisce un motivo illecito e, come tale, rende nullo il licenziamento. In questa vicenda, i giudici hanno chiarito che la testimonianza sgradita è stata l’unica ragione reale dell’allontanamento.
Per questo motivo, la Corte ha rigettato il ricorso dell’azienda, confermando la nullità del licenziamento. In sintesi, la Cassazione ha rilevato che il carattere ritorsivo del recesso era stato correttamente accertato sulla base delle circostanze concrete.
Il lavoratore è riuscito a dimostrare che la volontà di vendetta del datore di lavoro è stata l’unica motivazione alla base della decisione.
Va inoltre ricordato che la nullità del licenziamento fa scattare la tutela reale piena, a prescindere dalla data di assunzione del lavoratore e dalle dimensioni dell’azienda.
Il giudice ordina quindi il reintegro del dipendente e il pagamento di un’indennità pari all’intera retribuzione globale di fatto, dal giorno del licenziamento fino all’effettivo rientro in azienda. L’azienda è tenuta anche al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per tutto il periodo.
Il lavoratore, una volta ottenuta la sentenza favorevole, può comunque optare, in alternativa al rientro, per un’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. In questo caso, il rapporto si chiude definitivamente.