Tfr nel fondo pensione: quando conviene lasciarlo in azienda

Il trattamento di fine rapporto è una somma che può essere liberamente investita dal dipendente in un fondo pensione. I motivi per cui la scelta è potenzialmente vantaggiosa

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

Il Tfr – il trattamento di fine rapporto – consiste in una somma accantonata nel corso del rapporto di lavoro, che spetta al dipendente al termine dell’esperienza in una data azienda, al di là del motivo che ha portato al recesso. Recentemente abbiamo parlato delle ultime novità in materia e della imminente ripresa dei lavori sulla riforma delle pensioni da parte dell’Esecutivo. Prossimamente si discuterà anche della proposta del sottosegretario leghista al Ministero del Lavoro Claudio Durigon, che intende introdurre una porzione del trattamento di fine rapporto nei fondi pensione, al fine di rilanciare la previdenza complementare.

Come è noto, il Tfr maturato dai lavoratori subordinati può essere trasferito nel fondo pensione, senza lasciarlo in azienda. Lo scopo è quello di investirlo e di costruire una pensione integrativa futura che si sommi a quella che scaturirà dalla previdenza pubblica obbligatoria e che, in vecchiaia, possa aiutare a mantenere un tenore di vita simile a quello del periodo lavorativo.

In questi anni, i fondi pensione non hanno mai avuto un vero boom tra i lavoratori, visto che moltissimi dipendenti preferiscono lasciare il Tfr in azienda. Ma è davvero una scelta saggia? Insieme vedremo se effettivamente conviene investire questa somma nella previdenza complementare, ecco cosa sapere.

Tfr in azienda o nei fondi pensione, il contesto di riferimento

Come accennato poco sopra, recentemente ci siamo occupati della proposta avanzata da Claudio Durigon, di far finire una quota del trattamento di fine rapporto (Tfr) – pari al 25% – nei fondi pensione complementari, a patto che il dipendente stesso non si opponga in modo esplicito entro un certo termine.

La volontà del Governo – lo ribadiamo – è quella di contribuire al rilancio della previdenza complementare, considerato anche che le pensioni delle forme di previdenza obbligatoria non potranno bastare a garantire lo stesso reddito che si aveva durante la carriera.

Da quasi vent’anni – con la nascita della previdenza integrativa – l’opportunità dei fondi pensione rappresenta l’alternativa alla maturazione del Tfr in azienda, con correlata rivalutazione.

Per aver chiaro il quadro della situazione, ricordiamo che i datori di lavoro:

  • con meno di 50 dipendenti gestiscono direttamente il Tfr in azienda nelle proprie casse;
  • con 50 dipendenti o più devono versarlo con cadenza mensile, tramite modello F24, nel Fondo di tesoreria presso l’Inps.

Il lavoratore subordinato, fin dalla data dell’assunzione e in qualsiasi momento, può scegliere in tutta libertà di lasciare il Tfr in azienda (o nel Fondo Inps, per le aziende con più di 49 dipendenti) o di destinarlo ad un fondo pensione, che ritenga conveniente per il suo futuro previdenziale. In quest’ultimo caso, egli dovrà compilare il modello TFR2, dettagliando il fondo di previdenza complementare prescelto.

Nella prassi l’azienda spesso non gradisce il trasferimento del Tfr di un dipendente alla previdenza complementare (e analogamente potrebbe non gradire la richiesta di anticipo del Tfr), perché i datori di lavoro tendono a ritenerlo un ‘tesoretto’ utile per l’autofinanziamento della propria attività. Ma il dipendente non deve dimenticare che si tratta di denaro a lui riconducibile e che destinare il trattamento alla previdenza complementare è un suo diritto.

Cosa succede se il lavoratore non sceglie il fondo pensione

Se il dipendente non sceglie autonomamente di destinare il Tfr nella previdenza complementare, il trattamento confluirà in via automatica – per silenzio assenso o adesione tacita – nel fondo cui il contratto aziendale o Ccnl applicabile fa riferimento (e sempre che il contratto collettivo del comparto lo richiami espressamente), a patto che entro un semestre dall’assunzione non sia fatta una scelta differente.

La decisione di investire il Tfr in un fondo pensione non può essere cambiata, invece quella di mantenerlo in azienda può essere cambiata in ogni momento durante la carriera – e anche in ipotesi di cambio di occupazione. La nuova azienda sarà vincolata alle volontà dal dipendente, che potrà sempre liberamente scegliere di versare il suo Tfr a un fondo di previdenza complementare.

Il trattamento fiscale

Chi investe il Tfr nel fondo pensione viene agevolato sul fronte fiscale. Infatti il trattamento di fine rapporto versato in una qualsiasi forma di previdenza complementare:

  • come rendimento, è tassato con un prelievo tramite tassazione sostitutiva corrispondente al 12,5% sui rendimenti da titoli di Stato e al 20% sui rendimenti da differenti impieghi (invece per tutti gli altri investimenti la tassazione è pari al 26%);
  • come prestazione finale (pensione integrativa) è tassato con una ritenuta a titolo d’imposta del 15% sull’importo, ma tale percentuale cala dello 0,30% annuo nel caso in cui l’anzianità di partecipazione al fondo sia maggiore di 15 anni, con un taglio massimo del 6%.

Facendo un veloce esempio pratico, un dipendente con 35 anni di anzianità o più, che si era iscritto ad un fondo pensione subito dopo l’assunzione dovrà sostenere la tassazione minima, pari al 9% sull’ammontare del Tfr. Questa è una interessante agevolazione fiscale, che intende incentivare ad investire il trattamento nel più breve tempo.

Invece il Tfr lasciato in azienda – o accantonato nel Fondo Inps:

  • è tassato esclusivamente nel momento della sua erogazione, vale a dire alla data della liquidazione (ad es. per licenziamento);
  • è oggetto di tassazione separata, che comporta l’applicazione dell’aliquota Irpef media relativa all’ultimo quinquennio, con un minimo del 23% e un massimo del 43%.

Dal confronto emerge quindi che lasciare il Tfr in azienda comporta un ‘peso’ fiscale maggiore per il dipendente.

La deducibilità Irpef e vantaggi fiscali per le aziende

Non solo. Per incentivare la scelta dell’investimento del Tfr nei fondi pensione, c’è la deducibilità Irpef dei versamenti entro un tetto di 5.164,57 euro annui. Facendo un altro breve esempio pratico, un dipendente che versa nella previdenza integrativa 350 euro al mese potrà decurtare il suo reddito imponibile per la somma di 4.200 euro annui, risparmiando una buona parte di Irpef (in relazione all’aliquota dello scaglione in gioco). Inoltre, il dipendente che annualmente versa nella forma di previdenza integrativa una somma maggiore del limite di cui sopra – ad es. 7mila euro – potrà recuperare quanto non dedotto, informando il proprio gestore di previdenza integrativa.

A dire il vero, a guadagnarci dall’investimento del Tfr nei fondi pensione sono però anche i datori di lavoro. Di che vantaggi fiscali stiamo parlando? In gioco c’è una deduzione dal reddito d’impresa pari al 6% se l’azienda ha fino a 49 dipendenti e del 4% se l’azienda ha dai 50 dipendenti a salire. Tale percentuale vale all’ammontare del Tfr annualmente conferito.

Alle aziende si applica più lo sgravio dello 0,2% del monte retributivo sui versamenti al Fondo di garanzia Inps e dello 0,28% a titolo dei cosiddetti oneri impropri da versare allo stesso istituto. Insieme al costo deducibile dal reddito di impresa, non essendo lasciato in azienda, sul Tfr inoltre il datore non deve più accollarsi l’onere e il costo della rivalutazione annuale prevista per legge.

Rivalutazione Tfr in azienda o rendimento fondi pensione?

Il Tfr annuo è pari a poco meno di una mensilità di retribuzione piena, con i suoi importi che si rivalutano annualmente per tenere conto dell’andamento dell’inflazione, di una percentuale formata dall’1,5% fisso più il 75% della variazione in incremento dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di impiegati ed operai, rilevato di volta in volta dall’Istat.

In altre parole il rendimento del Tfr in azienda, o nel fondo Inps di cui sopra, è prestabilito nella misura fissa dell’1,5% annuo tenuto conto del parametro dell’inflazione futura, visto che la rivalutazione copre comunque il 75% del suo incremento.

La rivalutazione del Tfr versato nei fondi pensione si compie diversamente. Il rendimento è infatti legato al profilo di rischio scelto dall’aderente. In sintesi ci sono linee di investimento:

  • conservative o garantite, opportune per coloro che non amano molto il rischio e preferiscono orientarsi in investimenti in titoli di Stato e obbligazioni a basso rischio;
  • bilanciate, ovvero combinate e in cui troviamo in obbligazioni e azioni, per un compromesso tra rischio e rendimento;
  • azionarie o aggressive, con privilegio per gli investimenti in azioni (e talvolta in prodotti derivati), nella finalità di ottenere rendimenti più alti a fronte di un rischio maggiore.

Il lavoratore o la lavoratrice potrà insomma personalizzare l’investimento, in base alle proprie preferenze di rischio e orizzonte temporale, nella consapevolezza che i fondi pensione danno una pluralità di opzioni di investimento variabili per livello di rischio e composizione degli asset. In ogni caso l’investitore dovrà essere debitamente informato delle caratteristiche del prodotto, e del correlativo livello di rischio, prima di dire sì all’investimento. In ipotesi di investimento del Tfr nella previdenza integrativa, il rendimento – a differenza del Tfr lasciato in azienda – sarà quindi variabile e incerto, e non predeterminato.

Non c’è certezza su quanto sarà l’effettivo rendimento futuro, visto che l’andamento dei mercati finanziari è imprevedibile, ma è vero che le serie storiche finora rilevate confermano che di solito i rendimenti dei fondi pensione oltrepassano quelli dei Tfr non investiti.

Conclusioni

Alla luce di quanto abbiamo detto finora, resta che la scelta di investire il Tfr nei fondi pensione – o lasciarlo in azienda – è squisitamente personale e, al di là delle considerazioni dal lato fiscale e sui possibili rendimenti connessi alla previdenza complementare, c’è una variabile fondamentale da considerare: l’età anagrafica.

Infatti il Tfr lasciato in azienda viene liquidato al dipendente al momento della fine dell’esperienza di lavoro e per qualsiasi ragione essa si verifichi (ad es. per dimissioni per giusta causa), mentre per agguantare i benefici del Tfr investito nella previdenza complementare occorre per forza aspettare il compimento dell’età pensionabile (tranne casi particolari legati a gravi problemi di salute e che impongono la liquidazione anticipata). Specialmente i giovani lavoratori potrebbero allora posticipare la scelta dell’investimento nella previdenza complementare, sentendosi più protetti nell’avere il Tfr subito a disposizione, al termine della esperienza di lavoro.