Sri Lanka nel caos, cosa sta succedendo e quanto costa la crisi

Il Paese è alle prese con la peggiore crisi politica ed economica dal 1948. La gestione della famiglia Rajapaksa, al potere da 20 anni, ha portato alla bancarotta e acceso la protesta

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Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

Una volta un saggio disse: “Più in alto sali, più male sentirai se cadi”. Lo sa bene lo Sri Lanka, alle prese con la peggiore crisi politica ed economica dal 1948, anno in cui ottenne l’indipendenza dal Regno Unito. Un Paese tutt’altro che povero, al contrario della percezione che se ne potrebbe avere, se paragonato agli altri Stati dell’area di appartenenza (inclusa l’India).

I social e le televisioni di tutto il mondo sono piene delle immagini della rivolta di massa dei cittadini, scesi in piazza per l’aumento insostenibile dei prezzi (soprattutto dei carburanti) e dell’inflazione (per quanto riguarda l’Italia, ne abbiamo parlato qui) e per il profondo dissenso nei confronti della famiglia Rajapaksa, che governa il Paese da oltre 20 anni. E che lo ha fatto con derive populistiche e politiche economiche che hanno portato alla bancarotta dello Stato.

Perché in Sri Lanka si protesta contro il governo e cosa è successo

Cominciamo dalla fine. Il presidente dello Sri Lanka, Gotabaya Rajapaksa, si è dimesso dalla carica istituzionale dopo essere stato costretto dai rivoltosi a fuggire dal Paese a bordo di un aereo militare. E lo ha fatto in una maniera decisamente singolare: inviando una e-mail da Singapore, dove si è rifugiato dopo un breve passaggio nelle vicine Maldive.

La scorsa settimana la sua residenza era stata presa d’assalto dai manifestanti al grido di “GotaGoGama” (Gota Go Home) e, una volta recatosi in aeroporto, l’astio dei cittadini si è rivelato talmente forte che i funzionari dello scalo internazionale di Colombo gli hanno impedito di imbarcarsi alla volta di Dubai. Anche al fratello minore del presidente, Basil Rajapaksa, che ricopriva la carica di Ministro delle Finanze, era stato vietato di salire a bordo di un volo per Dubai in rotta verso gli Stati Uniti (Paese col quale condivide la doppia cittadinanza).

L’ormai ex presidente 73enne è sfuggito all’arresto grazie all’immunità garantitagli dalla Costituzione dello Sri Lanka. Dopo la fuga del Capo dello Stato, la nazione insulare ha dichiarato lo stato di emergenza. Sempre secondo la Carta costituzionale, il potere esecutivo è passato nelle mani del primo ministro Ranil Wickremesinghe. Neanche quest’ultimo però gode delle simpatie del popolo, come dimostra l’assalto al suo ufficio da parte degli attivisti anti-governativi. Fatto sta che Wickremesinghe è stato nominato presidente ad interim e tale resterà (salvo più gravi sconvolgimenti) fino alla formazione di un nuovo governo di unità di tutti i partiti. Anche se in realtà si è offerto di dimettersi “per garantire la continuazione dell’esecutivo”.

I motivi delle proteste e della crisi

Il drammatico epilogo politico non è altro che l’ultimo, esplosivo atto di una crisi economica che attanaglia lo Sri Lanka da mesi. La popolazione non ne può più dei continui blackout e della carenza di cibo, carburante e farmaci (anche in Italia i prezzi schizzano alle stelle: ne abbiamo parlato qui). La situazione era già precipitata lo scorso marzo, quando il Paese è crollato sotto il peso dei debiti internazionali ed è stato costretto a sospendere il rimborso di circa 7 miliardi di dollari in prestiti esteri in scadenza nel 2022 (su un totale di 25 miliardi da restituire entro il 2026). In parole povere attualmente lo Sri Lanka non è in grado di pagare l’importazione di beni di prima necessità.

Il disastro economico e umanitario è servito: milioni di persone rischiano la povertà e la fame e lo Stato è ufficialmente in bancarotta. Le ragioni della crisi affondano le radici nel decennio a cavallo tra il 2005 e il 2015, durante il quale la famiglia Rajapaksa inaugurò ingenti sforzi economici con l’intento di trasformare lo Sri Lanka in una “seconda Singapore”, in un Paese cioè ricco e sviluppato. Le operazioni si rivelarono però fallimentari e crearono un debito pubblico da record.

Le politiche economiche sono tuttavia proseguite, in maniera del tutto scellerata: per anni lo Sri Lanka la bilancia import-export si è rivelata fortemente sbilanciata a favore del primo termine e il mantenimento di un Welfare insostenibile ha gonfiato i debiti internazionali. A completare il quadro del disastro hanno contribuito anche la corruzione dilagante e una gestione autoritaria del potere, volta a stroncare sul nascere le opposizioni. I folli investimenti nel campo delle infrastrutture, con conseguente indebitamento nei confronti soprattutto della Cina, e il minor gettito causato dal taglio delle tasse promesso a fini elettorali hanno fatto il resto.

I costi enormi della crisi

Lo Sri Lanka si è dunque ritrovato a cadere dall’alto di una condizione economica tutt’altro che minoritaria. A dimostrarlo sono i dati del PIL pro capite, che nel 2019 ha toccato un picco di oltre 4.225,11 dollari, anche se dopo è calato in maniera inevitabile e vertiginosa. I numeri hanno però incoronato lo Sri Lanka come il Paese più ricco (in termini pro capite) della regione, con la sola eccezione delle Maldive. Perfino un gigante come l’India segnava, sempre nel 2019, un PIL pro capite inferiore (2.100,75 dollari).

L’amministrazione Rajapaksa ha però rovinato tutto, portando il Paese a registrare a maggio il primo default del debito sovrano della sua storia. Risultato: le riserve di valuta estera sono ridotte al lumicino. Ora allo Sri Lanka non resta che garantirsi innanzitutto l’àncora di salvataggio del Fondo Monetario Internazionale, per poi dare fondo a una strategia a lungo termine che parta dalla stabilità politica e che consenta di offrire all’economia basi più solide di quelle rappresentate dal solo turismo.

Il collasso dei “pilastri” di turismo e agricoltura

A innescare la crisi è stata anche la gestione di due settori fondamentali per l’economia del Paese: il turismo e l’agricoltura. A metà 2021 il presidente Rajapaksa ebbe la fatale idea di trasformare lo Sri Lanka in un’entità agricola “biologica al 100%”, vietando l’uso di fertilizzanti chimici e pesticidi senza però un’oculata pianificazione strategica e scientifica (biodinamica: cos’è e perché se ne sta parlando tanto dopo il DDL agricoltura biologica). Si è dunque verificata la maggiore perdita di raccolto degli ultimi anni, con un sonoro -50% per quanto riguarda le colture principali. Tra queste anche il tè, che rappresenta quasi il 10% delle esportazioni dello Sri Lanka, e delle spezie che vedono il Paese tra i più grandi produttori al mondo.

All’equazione mancava l’incognita della pandemia di Covid, che ha dato il colpo di grazia anche all’altro “pilastro” economico (e terza fonte di valuta estera): l’industria dei viaggi e del turismo. Secondo il World Travel and Tourism Council, questo settore ha contribuito per il 10,5% al PIL dello Sri Lanka nel 2019. Nel 2020, anno clou dell’incubo coronavirus, il comparto ha invece contribuito solo per il 4% al PIL. Quota che è scesa ulteriormente al 3,1% l’anno successivo.