Il ddl Lavoro, al centro del dibattito politico di questi ultimi giorni, era stato approvato dal Consiglio dei Ministri un anno e mezzo fa, nella seduta del primo maggio 2023, ma è giunto in Parlamento soltanto da pochissimo tempo. Non solo la questione del salario minimo, che continua ad agitare i partiti e a muovere il confronto tra Governo e opposizione: il testo è finito nel bersaglio, anche e soprattutto, perché – secondo le opposizioni – introdurrebbe novità che allargano la possibilità di licenziare, celando il recesso datoriale sotto la foglia di fico delle dimissioni (fittizie).
Il disegno di legge del Governo ha ottenuto l’approvazione dell’art. 19, quello che introduce una forma di dimissioni implicite per assenza ingiustificata, ma che cosa c’è di vero e sostanziale in queste ultime novità di cui al ddl Lavoro? Il perimetro dei licenziamenti è davvero destinato a cambiare? Facciamo un po’ di chiarezza e cerchiamo di capire in quale direzione si sta muovendo l’Esecutivo.
Indice
Modifiche al Jobs Act in tema di licenziamenti
Lo abbiamo accennato in apertura: il Governo con il ddl Lavoro vuole intervenire sulla materia dei licenziamenti, che già qualche anno fa – con il Jobs Act – era stata modificata in modo effettivo. Infatti il d. lgs. n. 151 del 2015, pur ribadendo la possibilità di disporre il licenziamento individuale introdotto dalla legge Fornero, fissava regole stringenti (art. 26) per controbattere al noto fenomeno dei licenziamenti mascherati dalle dimissioni volontarie del dipendente (in gergo dimissioni in bianco).
Per evitare questo criticabile comportamento del datore di lavoro, era stato introdotto l’obbligo di comunicare le dimissioni in forma telematica all’Inps, una modifica che assicura la “data certa” della comunicazione ed impedisce quelle post-datazioni di fogli in bianco prestampati, che caratterizzavano le dimissioni in bianco.
Le critiche delle opposizioni alla novità di cui al ddl Lavoro indicano, in particolare, che il testo allargherebbe le maglie dei licenziamenti, reintegrando di fatto le dimissioni in bianco che – come il passato purtroppo insegna – tendono a colpire soprattutto le lavoratrici al momento della maternità. Tuttavia, nei giorni scorsi, il Ministero del Lavoro ha inteso precisare che la nuova regola inserita nel disegno di legge atterrebbe soltanto al caso del dipendente assente ingiustificato per 15 giorni (salvo diverso termine stabilito dal Ccnl di riferimento).
Il caso dell’assenza ingiustificata e le dimissioni
Aggiungendo un comma all’art. 26 del Jobs Act, l’art. 19 del nuovo ddl Lavoro stabilisce che:
in caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a quindici giorni, il datore di lavoro ne dà comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che può verificare la veridicità della comunicazione medesima. Il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina prevista dal presente articolo.
Durante l’esame del testo a Montecitorio, gli emendamenti delle opposizioni hanno portato da cinque a quindici giorni di assenza ingiustificata, mentre la verifica della comunicazione dell’azienda da parte dell’Ispettorato del Lavoro è rimasta – nel testo poi approvato – una mera possibilità, e non un obbligo – come invece avrebbe voluto l’opposizione. In sostanza, di fronte a un’assenza di almeno quindici giorni, il datore lo comunica all’Ispettorato e, se quest’ultimo non interviene, potrà considerare interrotto il rapporto per volontà del dipendente.
La vera novità in questa norma è però la perdita del diritto alla Naspi a favore del lavoratore subordinato, perché – se qualificato come dimissionario (e salvo il caso delle dimissioni per giusta causa) – per legge non ha diritto all’indennità di disoccupazione.
Onere della prova a carico del lavoratore
Modificando la normativa vigente, il ddl del Governo inserisce l’onere della prova a carico del dipendente. Infatti nel testo si trovano queste parole:
Le disposizioni […] non si applicano se il lavoratore dimostra l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza.
Pertanto:
- anche se l’assenza dall’ufficio o altro luogo di lavoro è stata causata dal datore, sarà proprio il dipendente a doverlo provare, spiegando che non c’è volontà di dimissioni;
- se non dà la prova, il lavoratore sarà considerato dimissionario e perderà le tutele previste invece in caso di licenziamento, incluso l’accesso alla Naspi.
In precedenza spettava all’azienda dare la prova che, sotto l’assenza del lavoratore, ci fosse un atto di dimissioni volontarie, ma la dimostrazione era in realtà impossibile nella realtà.
Cosa sono le dimissioni in bianco
Abbiamo sopra citato le dimissioni in bianco, ma c’è chi non sa esattamente a che cosa servivano. Fino a qualche anno fa poteva accadere che un’azienda, al momento dell’assunzione, imponesse al neoassunto di sottoscrivere un foglio in bianco in cui in un secondo tempo, se ritenuto opportuno, il datore avrebbe inserito la data delle sue dimissioni, intese come volontarie.
Erano appunto le dimissioni in bianco, un licenziamento subdolo e mascherato e un modo per sbarazzarsi del lavoratore, contro cui la legge Fornero del 2012 aveva varato rigide norme – poi ribadite qualche anno dopo dal Jobs Act – che rendevano obbligatoria la comunicazione formale della volontà di lasciare il posto di lavoro.
Che cosa cambia
A giustificare la modifica apposta dal ddl Lavoro al Jobs Act, secondo il Governo, è l’esigenza di contrastare quei ‘furbetti’ che, invece di dimettersi, cercano di farsi buttare fuori dall’azienda ricorrendo alle assenze prolungate, per aver comunque diritto alla Naspi, l’indennità di disoccupazione. Quest’ultima – lo ribadiamo – non spetta infatti a chi abbandona il posto di lavoro per propria decisione.
Si tratta di una prassi già censurata da più tribunali, ma non tutti hanno accolto favorevolmente la novità normativa. All’opposizione c’è chi infatti sostiene che la cura sia peggio del male, perché rischia di trasformare in dimissionario chi invece, in un modo o nell’altro, è stato cacciato (salva però la possibilità di dare la prova contraria).
Ma l’Esecutivo – con questa novità nel Jobs Act – in verità vorrebbe reprimere una volta per tutte la pratica di spacciare come licenziamento per giusta causa una condotta che, in verità, potrebbe ben essere intesa come un atto di dimissioni per fatti concludenti. D’altronde si tratta di situazioni in cui il dipendente si rende assente e, per esempio, non chiede permessi o ferie, che dimostrerebbero invece la sua volontà a conservare il rapporto di lavoro.