Un’assenza ingiustificata può trasformarsi in un gesto che parla più di mille parole. Questo è il principio che sta alla base della disciplina delle dimissioni per fatti concludenti. La recente sentenza n. 4953/2025 del tribunale di Milano è utile per tutti i lavoratori e aziende perché risponde ad alcune domande chiave: non andare in ufficio significa dare le dimissioni? Oppure è comunque necessaria una manifestazione chiara della volontà di chiudere il rapporto? Il d. lgs. 151/2015, nella sua versione odierna, dà una risposta inequivocabile.
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Lavoratrice via da lavoro per giorni: il caso
Una dipendente, assunta con il ruolo di educatrice e con contratto di lavoro a tempo indeterminato secondo quanto previsto dal Ccnl Cooperative Sociali, aveva fatto causa al proprio datore, contestando le dimissioni volontarie di fatto menzionate dall’azienda, a sostegno dell’interruzione forzata del rapporto.
Presso il giudice del lavoro la donna chiedeva la reintegrazione in servizio nella cooperativa.
Ebbene, come emerge dai fatti indicati nel testo della sentenza milanese, la lavoratrice si era assentata dal lavoro per alcuni giorni, senza dare alcuna valida giustificazione. Di conseguenza la cooperativa aveva fatto valere le nuove norme sulle dimissioni tacite o per inerzia.
Le aveva espressamente comunicato che, preso atto della sua assenza ingiustificata (protrattasi per oltre 3 giorni, termine previsto dal Ccnl di riferimento per il licenziamento disciplinare), la riteneva dimissionaria in forza dell’art. 26 comma settimo bis del d. lgs. 151/2015, introdotto dalla legge 203/2024.
La sentenza conferma le dimissioni
La magistratura ha dato torto dalla dipendente, spiegando in sentenza che la volontà di dimettersi si può desumere dal protrarsi dell’assenza oltre la soglia prevista dal contratto collettivo, con conseguente esclusione di ogni pretesa di reintegrazione o indennizzo.
Ecco perché il giudice ha citato l’art. 42 del Ccnl delle cooperative sociali, che prevede la massima sanzione disciplinare per chi si rende assente ingiustificato per almeno 3 giorni consecutivi.
Se esiste una specifica previsione nel contratto collettivo applicato al proprio settore lavorativo, non vale il termine legale per le dimissioni per fatti concludenti, pari a 15 giorni.
La presunzione legale di dimissioni in caso di assenza ingiustificata
È interessante notare che il giudice del lavoro ha chiarito che questa soglia contrattuale è utilizzabile anche ai fini della presunzione legale di dimissioni, non avendo una sola funzione disciplinare. È stata così bocciata la tesi difensiva della lavoratrice e, infatti, nella pronuncia si legge che:
il legislatore, nel rinviare alla contrattazione collettiva, ha inteso valorizzare la soglia di tolleranza che le stesse parti sociali hanno individuato come critica, ovvero il numero di giorni di assenza la cui gravità è tale da giustificare la sanzione massima della risoluzione del rapporto. La nuova norma non fa altro che mutare la qualificazione giuridica degli effetti di tale condotta, trasformandola da presupposto per un licenziamento datoriale a fatto concludente che manifesta la volontà del lavoratore di recedere.
Sostanzialmente, il giudice milanese ha così riconosciuto la correttezza del comportamento della cooperativa, perché ha considerato che la nuova legge combatte il fenomeno delle assenze prolungate e mirate a farsi licenziare per ottenere poi la Naspi.
Per evitare questo escamotage del dipendente, il legislatore ha previsto questa specifica disciplina delle dimissioni tacite o per inerzia, che scattano per presunzione automatica qualora non si faccia sapere nulla del perché della propria assenza dall’ufficio.
Non c’è bisogno di un atto formale scritto
Andando oltre il mero caso concreto, la sentenza in oggetto è e sarà di riferimento per aziende e dipendenti perché ribadisce che per l’assenza ingiustificata scattano le dimissioni, come prevede il Collegato Lavoro.
Il comportamento della donna equivaleva a dimissioni, con presunzione legale e automatica della volontà di andarsene.
Inoltre, il datore non era tenuto a inviare specifici avvisi o notifiche al lavoratore, né doveva avviare ulteriori procedure perché è la legge che spiega cosa fare, attraverso la valutazione del comportamento.
In casi come questo, non serve nulla di scritto che accerti la volontà del dipendente e, anzi, questa pronuncia fa molto più che applicare una norma nuova.
Definisce un modello interpretativo, perché ci dice che la presunzione di dimissioni è autonoma e robusta, basandosi su fatti concreti (le assenze) e funzionando da sola. Non sono necessari atti formali del datore.
L’onere della prova spetta al dipendente
Ma attenzione: questa presunzione non è assoluta. Infatti, se il dipendente dimostra con fatti concreti l’esistenza di una forza maggiore (ad es. un grave impedimento imprevisto) o di una responsabilità del datore (ad es. condizioni che gli rendono impossibile presentarsi), può utilmente contestarla e vincere in giudizio.
In altre parole, il diritto a essere tutelato in tribunale non è cancellato, viene solo spostato sul terreno delle prove da presentare in aula.
Concludendo, per responsabilizzarsi al meglio, sia i datori che i lavoratori faranno bene a conoscere nel dettaglio il contratto applicato.
Da un lato, l’azienda può contare su strumenti più rapidi e certi, ma deve usarli con prudenza, rispettando i termini contrattuali e rapportandosi eventualmente all’Ispettorato del Lavoro.
Dall’altro, il dipendente deve sapere che oggi non ci sono più zone grigie: infatti, una prolungata assenza ingiustificata può avere conseguenze immediate e definitive, salva la prova di ostacoli reali e invalicabili.