Business in Cina: Andrea Ghizzoni racconta la “nuova Via della Seta”

Il libro di Andrea Ghizzoni e Francesco Boggio Ferraris è una guida per imprenditori e manager italiani che vogliono affrontare il mercato più promettente del mondo.

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Redazione

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Pubblicato: 21 Ottobre 2020 12:12

La Cina è un’occasione di investimento straordinaria per gli imprenditori italiani e una fonte inesauribile di spunti e di crescita per i manager. La nuova prima economia al mondo è stata capace di risollevarsi dalla recentissima crisi generata dalla pandemia di COVID-19, confermandosi come un orizzonte per tutti i professionisti delle nostre imprese.

Ne abbiamo parlato con Andrea Ghizzoni, uno dei primi manager occidentali a mettere piede nel mondo digital cinese, che è da poco uscito con un libro su questo argomento: “Business in Cina: strumenti, strategie e opportunità lungo la Nuova Via della Seta“.

Business in Cina: strumenti, strategie e opportunità lungo la Nuova Via della Seta è una guida rivolta agli imprenditori e ai manager italiani che affrontano il mercato più promettente al mondo. Perché la Cina viene attualmente definita tale?
Da una parte c’è ovviamente la dimensione di questo mercato, ma anche il trend di un’economia che sta puntando a diventare la prima al mondo. Se da un lato la Cina fa a spallate con gli Stati Uniti, dall’altro sta cercando di aprirsi al resto del mondo non più come fabbrica, ma come mercato di destinazione.

Per esempio?
Quello che percepisco da osservatore è come la Cina stia iniziando ad influenzare gli altri Paesi anche a livello culturale. Pensa a quanti film vengono attualmente finanziati da aziende cinesi: ci sono sempre più blockbuster che hanno tra i loro finanziatori grosse aziende asiatiche, hanno attori asiatici e scene girate in Asia. Anche questo è un tentativo di influenzare la cultura. Un altro punto di contatto è il fenomeno Tik Tok, che Trump sta cercando di ostacolare. Negli anni in cui ci ho vissuto e lavorato, ho visto la Cina diventare sempre più self-confident, che è abbastanza normale quando hai cittadini la cui educazione migliora e sei portatore di un’economia e una leadership sempre più marcate.

A proposito di Tik Tok, come hai letto la mossa difensiva degli Stati Uniti?
L’azione in sé è stata un po’ scomposta e quindi molto difficile da difendere. Personalmente l’ho letta come una reazione un po’ muscolare, isterica, alla presa di consapevolezza di non avere più la leadership su una serie di ambiti nel quale tradizionalmente si pensava di averla, o comunque la si aveva. Non mi sento di condannare del tutto il tentativo di difesa, capisco che uno voglia cercare di difendere il proprio Paese.  Detto questo, quello di Trump non è stato il modo migliore per farlo.

 Abbiamo parlato degli imprenditori, ma in che modo un manager può organizzare la propria azienda imparando dalla Cina?
Ci sono diversi aspetti. Dal punto di vista organizzativo, c’è stata per tanti anni un’attitudine a pensare che la Cina fosse molto diversa dal resto del mondo e dovesse essere gestita come mercato direttamente da lì. Questo si è rivelato pericoloso, nel momento in cui la Cina è diventata rilevante nei conti economici delle aziende e in cui i cinesi hanno cominciato a comunicare (e soprattutto fare acquisti) fuori dalla Cina. Non posso avere una customer experience e un posizionamento completamente diverso in Cina, se poi in via Monte Napoleone a Milano vengono a comprare solo cinesi. Ciò richiede un maggiore livello di controllo da parte dell’headquarter su ciò che viene fatto in Cina, e molta più conoscenza di questo Paese all’interno della sede centrale. Oltre alla cultura e alla conoscenza, ci vuole anche un adeguamento dei sistemi tecnologici. Questo punto è determinante: pensa a quando un’azienda deve gestire le attività di collaboration nei negozi di tutto il mondo e sceglie uno strumento come Facebook At Work. Peccato che in Cina Facebook sia bloccato e quindi lì non ricevono nulla. Ecco perché questi tre aspetti sono importantissimi e soprattutto devono andare di pari passo.

C’è un termine ricorrente nel tuo libro, “wanghong”. Cosa significa essere “wanghong” per i propri consumatori?
Vuol dire letteralmente “figo”, “cool”, quello che su Twitter potrebbe essere un “Trending Topic”. In Cina la città italiana “wanghong” è Milano: quando i cinesi organizzano un viaggio scelgono di venire qui.

Tu personalmente cosa hai imparato dalla Cina?
La prima cosa che mi viene in mente è un approccio molto diverso al tempo. Per loro conta il fatto che la direzione seguita sia quella giusta, indipendentemente dal tempo che impieghi per arrivarci. Se la strategia è corretta, prima o poi arrivi. E questo secondo me riporta in certi casi un ordine mentale che aiuta anche a lavorare meglio: nella letteratura cinese, l’eroe non è mai il guerriero, è sempre lo stratega. C’è un’attenzione al pensiero, più che alla singola mossa e questo a me ha insegnato molto. Poi, un’altra cosa che mi ha sempre colpito della Cina è un’accettazione maggiore delle incoerenze. Ci sono cose che sono apparentemente contrastanti, ma funzionano in una loro armonia. Per esempio, le aziende cinesi vedono di buon occhio che un loro manager faccia anche un altro lavoro. Hanno quasi tutti una seconda attività, che viene intesa come uno sfogo e una possibilità di ricevere nuove idee e contaminazioni.