Navigare tra i nuovi dazi Usa: impatti, opportunità e strategie per il Made in Italy

I dazi Usa impensieriscono le Pmi, già alle prese con gli alti costi dell'energia e i paletti del Green Deal. Quale futuro per l'export Made in Italy e per l'internazionalizzazione

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Mauro Di Gregorio

Giornalista politico-economico

Laurea in Scienze della Comunicazione all’Università di Palermo. Giornalista professionista dal 2006. Si interessa principalmente di cronaca, politica ed economia.

Pubblicato: 14 Aprile 2025 15:15

L’economia mondiale è terremotata dai dazi Usa imposti da Donald Trump, e poi in larga parte sospesi, e dalla minaccia di guerre commerciali globali. Le grandi aziende italiane cercano nuovi sbocchi e le Pmi, che programmavano investimenti nell’ambito dell’internazionalizzazione, temono di dover tarare nuovamente i propri interventi. Ma oltre ai dazi, il mondo produttivo deve fare i conti anche con la crisi energetica e con gli obiettivi di decarbonizzazione.

QuiFinanza ha discusso delle criticità e delle opportunità per le Pmi italiane con Carlo Russo, Ceo e founder di Affariesteri.it, alla guida di un gruppo di esperti che prende per mano le aziende al fine di guidarle nei processi di crescita e di internazionalizzazione. Russo, al netto delle nuove sfide, esprime fiducia nelle capacità del tessuto produttivo italiano.

Quali sono gli impatti dei nuovi dazi Usa sul Made in Italy?

I dazi non sono altro che uno strumento negoziale, dal momento che Donald Trump non ha alcun interesse nell’aumentare il prezzo delle merci negli Stati Uniti. Le più alte tariffe doganali, dunque, sono piuttosto funzionali a intavolare una negoziazione con gli altri Paesi.

Trump ha giustificato l’introduzione dei dazi tirando in ballo il disavanzo commerciale fra Usa e Paesi Ue, e noi lo subiremo ma solo fino a un certo punto dal momento che, ad oggi, i dazi riguardano unicamente acciaio e alluminio. Ricordiamo inoltre che simili dazi vennero già inseriti dal presidente Trump nel suo primo mandato, quando vennero giustificati non come misure commerciali, ma come una scelta dovuta alla tutela della sicurezza nazionale. E la questione, oggi, secondo il suo punto di vista, non è affatto cambiata. Dazi su acciaio e alluminio, naturalmente, si riverberano su tutti i prodotti derivati come le automobili.

È opportuno, però, fare un po’ di chiarezza in merito all’aumento dei dazi al 20%: ciò non significa che se un prodotto prima dei dazi costava 100 euro, dopo ne costerà 120. Tale tariffa non viene applicata al costo finale di un bene, ma al suo costo iniziale. Ipotizziamo, ad esempio, che un prodotto che troviamo sullo scaffale di un negozio costi 100 euro: il suo costo all’origine è di 30 euro, che con i dazi sale a 36. Di conseguenza, con un’applicazione matematica del rincaro, l’acquirente dovrà pagare sui 106 euro, a meno che naturalmente il produttore non sia riuscito a contenere i costi in qualche punto della filiera.

Non dimentichiamo poi che, per noi italiani, il mercato statunitense non è sbocco di beni di prima necessità come ad esempio il pane. Esportiamo eccellenze dell’enogastronomia, ma anche molto lusso. E dubito che una macchina di lusso italiana dal prezzo di listino di 500.000 dollari smetta improvvisamente di essere acquistata perché il suo costo è lievitato a 530.000 dollari. Lo stesso dicasi per i vini e gli altri beni. Non prevedo, tirando le somme, quei risvolti catastrofici che qualcuno ha prospettato sull’export del Made in Italy.

All’estero, da noi, si aspettano qualità. Da parte mia sono fiero di portare il Tricolore in giro per il mondo, perché gli italiani hanno generalmente quella marcia in più che fa la differenza, soprattutto relativamente al problem solving. Nella maggior parte dei casi siamo un’eccellenza. Per questo mi permetto di sentirmi ottimista e fiducioso. Dovremo imparare ad avere di noi stessi quella stessa considerazione che gli stranieri hanno di noi.

Come potrebbero evolversi le relazioni commerciali tra Ue e Usa?

L’obiettivo a cui punta il governo italiano, che è poi lo stesso a cui punta l’Ue, è quello degli zero dazi da entrambe le parti. Tale soluzione è auspicata dallo stesso Elon Musk, consigliere di punta di Trump.

Quali opportunità e rischi comportano i dazi per le Pmi italiane?

Più che rischi correlati ai dazi, per l’Italia vedo molte criticità connesse alla mancanza di competitività globale dovuta agli alti costi dell’energia.

A gennaio, Trump ha annunciato l’emergenza energetica negli Stati Uniti, aumentando la produzione di idrocarburi fra cui anche il Gnl che noi importiamo. Questo dovrebbe in parte calmierare il costo dell’energia nel nostro Paese. L’Ue dovrà importare più gas dagli Usa, in sostituzione delle minori forniture dalla Russia, in accordo alla stretta imposta da Bruxelles. Essendo però passato l’inverno, il prezzo dell’energia potrebbe diminuire in modo significativo.

L’attuale scenario, naturalmente, non si traduce in automatico nella fine del Green Deal. Ci si sta solo spostando da posizioni un po’ più ideologiche a posizioni un po’ più pratiche, facendo in modo che le energie rinnovabili, a complemento delle batterie, diventino più competitive sugli idrocarburi e in particolare sul gas. La sfida è significativa: pensiamo che per centrare l’obiettivo di decarbonizzazione del 2030 dovremo investire, nei prossimi cinque anni, sei volte quello che abbiamo investito negli ultimi dieci.

Rispetto al nodo della decarbonizzazione, quali sono le sfide all’orizzonte?

In Europa ci siamo posti l’obiettivo di ridurre le emissioni del 50% nel 2030. Si tratta di un obiettivo raggiungibile, ma a patto di operare i massicci investimenti prospettati. E vi sono alcune criticità: ad esempio, è necessario che le autorizzazioni arrivino con una rapidità che fino ad oggi è mancata. E occorre trovare i capitali da investire.

Il governo italiano sta inoltre ricominciando a parlare di nucleare, anche in relazione all’intelligenza artificiale che consuma enormi quantità di energia. L’Italia sconta il fatto di avere alle spalle referendum in cui i cittadini hanno voltato le spalle al nucleare, ma se gli obiettivi di decarbonizzazione al 2050 restano confermati, sarà estremamente difficile raggiungerli senza il nucleare.

Un’altra area fondamentale sulla quale mi soffermerei è l’approvvigionamento delle terre rare. Ricordiamo che siamo la seconda potenza industriale in Europa. Relativamente al fatto che gran parte dei minerali e delle terre rare sono concentrati in Africa, ritengo che il Piano Mattei possa certamente essere di aiuto, a patto che la sua direzione venga confermata.

E, nel recupero delle materie prime, una grande attenzione andrà data alla gestione dei rifiuti e alle centrali geotermiche, punti sui quali siamo piuttosto indietro. Nel sottosuolo ci sono le materie prime che ci servono, ma anche energia: si potrebbe dunque trovare il punto di incontro fra l’estrazione dell’energia geotermica e il recupero di quei minerali di cui abbiamo bisogno, nell’ottica di una perfetta economia circolare. Si pensi, ad esempio, alla silice: è un materiale di scarto nel processo di estrazione geotermica, che anzi crea danni perché ne intacca le tubature. Se, invece, la si potesse prelevare si trasformerebbe in una risorsa.

Quali consigli pratici darebbe alle aziende italiane che vogliono internazionalizzarsi in questo contesto?

Serve, certamente, puntare a irrobustire la propria struttura. E servono persone giuste nei posti chiave che siano in grado di prendere decisioni strategiche. Come scrivo anche nel mio libro (Internazionalizzazione vincente: come avviare un processo di internazionalizzazione aziendale in maniera efficace partendo da zero per Bruno Editore, ndr), io la definisco “governance dell’internazionalizzazione”.

Il nostro apparato industriale non è certamente paragonabile a quello tedesco, dal momento che di grandi gruppi ne abbiamo relativamente pochi. In Italia, anche le aziende che sotto il profilo del fatturato superano i parametri delle Pmi, relativamente a modello e struttura, rimangono comunque Pmi nella gestione effettiva. La governance, in altre parole, è per lo più di tipo familiare.

Nel processo di internazionalizzazione, lo Stato aiuta le Pmi in maniera adeguata o si potrebbe fare di più?

Gli strumenti disposti dallo Stato per l’internazionalizzazione delle Pmi sono certamente utili ed efficaci, ma sono al contempo poco conosciuti e di difficile approccio, soprattutto per le aziende più piccole. Andrebbero pertanto ottimizzati sotto il profilo della comunicazione e della facilità di accesso.

Aggiungo inoltre che una delle più frequenti criticità che affrontano le Pmi che intendano internazionalizzarsi deriva dalla mancata conoscenza della cultura del Paese in cui si punta a operare. Errori il più delle volte banali possono essere aggirati conoscendo a fondo la cultura locale.