Perché il calo demografico in Italia non ha (solo) a che fare con i soldi

Prosegue la discesa dei numeri dei nuovi nati e non ci sono soluzioni economiche che riescono a invertire la rotta. Il problema sembrano non essere solo i soldi

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Giorgia Bonamoneta

Giornalista

Nata ad Anzio, dopo la laurea in Editoria e Scrittura e un periodo in Belgio, ha iniziato a scrivere di attualità, geopolitica, lavoro e giovani.

Essere o non essere genitori non è (solo) una questione di soldi, ma di volontà. A dirlo sono i diversi studi condotti nel tempo che mostrano un aumento delle persone che scelgono di non avere figli. In merito hanno fatto scrivere e discutere i dati emersi dalla recente indagine condotta dall’Istituto Toniolo su 7mila donne di età compresa tra i 18 e i 34 anni. I risultati mostrano una percentuale alta di donne che sono “debolmente interessate” a diventare madri (29%) o che non lo vogliono affatto (21%) e per questo si definiscono come childfree. Le due posizioni sommate fanno il 50% del gruppo preso a campione. Il sondaggio ha un’evidente mancanza: i dati riferiti alle risposte maschili, non prese in considerazione.

In Italia si discute spesso di denatalità con un approccio prettamente economico. Si cerca di dare un senso al calo delle nascite definendo il fenomeno come conseguenza della precarietà lavorativa, degli stipendi troppo bassi paragonati al costo della vita e si punta il dito contro welfare e congedi parentali sempre troppo limitati. Le soluzioni proposte hanno quindi mantenuto l’aspetto economico, tuttavia se il calo demografico fosse solo una questione di soldi basterebbe un lavoro, una casa e un sistema di welfare efficiente (tutti ingredienti che, in ogni caso, sono assenti nell’agenda politica) per aumentare il numero di nuovi nati e nate. La realtà però è più complessa di così.

Qualcosa è cambiato e le politiche contro la denatalità ne stanno già tenendo conto, affiancando a delle presunte soluzioni economiche un’aggressione più o meno velata alla scelta di non riprodursi. La nuova narrazione sulla maternità, il valore sociale attribuito alla donna-madre e il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza messo in discussione sono solo alcuni esempi di questo atteggiamento.

Calo demografico: non è una questione (solo) di soldi

“La denatalità è uno dei grandi problemi del nostro tempo”, dice Gian Carlo Blangiardo, professore emerito dell’Università Bicocca di Milano e presidente dell’Istat. Dietro i numeri ci sono diversi fattori, che Blangiardo racchiude nelle “tre C”: costo dei figli, il problema della cura e quello della conciliazione tra l’essere genitori e avere un lavoro a tempo pieno (motivo per il quale molte donne finisco per lavorare in part-time forzato). Si potrebbe anche pensare di aggiungere una quarta C, prosegue il professore, ovvero quella del contesto, cioè della cultura.

Il calo demografico infatti non è una questione (solo) economica. È un problema – nel senso di difficoltà che richiede un adattamento – solo se non si accettano i cambiamenti e se ci si ostina a pensare alla società come negli anni Sessanta, tra boom economico e demografico. Molti esperti tendono a utilizzare il termine “problema” o, in tono più allarmistico, quello di “collasso” per indicare il futuro del funzionamento dello Stato in caso di poche nascite. La lettura economica-finanziaria di questo ragionamento è evidente.

L’aspetto economico nella scelta di non avere figli dopotutto non è affatto secondario nella vita di una persona, ma non l’unico o il primo fattore determinante. Se da una parte i soldi non fanno la felicità, dall’altra è bene ricordare che fanno un vita dignitosa. Per questo molti futuri genitori potrebbero voler aspettare di avere delle condizioni economiche stabili prima di prendere una decisione. È proprio per questi volenterosi che lo Stato interviene o dovrebbe intervenire con politiche di occupazione e altre agevolazioni su casa e cura.

Il governo Meloni continua a presentarsi come il governo delle politiche per le famiglie. Lo scorso 12 aprile, al convegno sulla transizione demografica organizzato dalla ministra per la Famiglia Eugenia Roccella, la presidente del Consiglio ha confermato di aver messo in campo 2,5 miliardi di investimenti per le famiglie italiane. Giorgia Meloni si difende, ma rispondono all’appello solo bonus e una tantum. Non una vera soluzione a fronte delle spese che richiede un/una nascitura: nel primo anno di vita si arriva a spendere tra i 7 e i 15mila euro, cifra che arriva a toccare una media di 170-190mila euro nei 17 anni successivi (dati Federconsumatori).

Nel calcolo di quanto si spende, se vogliamo porre al centro il problema dei soldi, mancano numerosi dati. Per fare un esempio, quanto costa il taglio dei fondi agli asili nido pubblici? In assenza di posti, le madri (soprattutto se non hanno una rete famigliare supportante, aspetto che dovrebbe essere necessario in casi estremi e non la norma) non riescono a rientrare a lavoro e soffrono così di una discriminazione di genere e salariale che prende il nome di child penalty. Un dato che esiste anche negli altri Paesi, ma che in Italia non è recuperato nel tempo. L’impatto di una gravidanza sull’indipendenza economica delle donne è e resta elevato. Secondo i dati Inps, i salari lordi annuali delle madri sono di 5.700 euro inferiori a quelli delle donne senza figli rispetto al periodo antecedente la nascita. Numeri che si ripercuotono nel lungo periodo, arrivando a pesare in negativo anche sull’assegno pensionistico.

No, non è una questione solo di soldi, ma il divario di genere e la bassa partecipazione femminile nel mercato del lavoro limitano tanto la crescita economica dell’Italia, quanto le nascite. Alessandra Perrazzelli, vicepresidente generale della Banca d’Italia, ha ricordato che nelle economie avanzate la natalità tende a essere positivamente correlata con la partecipazione femminile al mercato del lavoro. Limiti ed esclusioni invece producono solo danni all’economia.

Persone che scelgono di non avere figli: chi sono i childfree

La natalità, ovvero il rapporto tra il numero delle nascite e il totale della popolazione, viene confusa nel discorso con la maternità, termine che indica il desiderio, le condizionoi, i diritti e i  doveri dell’essere madre. È in questo modo che la denatalità – in una società fortemente pro natalista come quella occidentale – diventa colpa della libera scelta riproduttiva, in particolar modo quella delle donne. Il movimento childfree si oppone alla pressione sociale che spinge alla maternità come una sorta di obbligo sociale.

Le persone childfree sono uomini e donne (in questa analisi prendiamo a esempio cisgender in relazioni etero) che non vogliono diventare genitori e che difendono la loro scelta di vita come pari alle altre. Il movimento può apparire dall’esterno come una comunità ridotta rispetto a chi non è genitore per altri ostacoli come infertilità o precariato (il termine corretto è childless), ma non è così. Da quando è stato possibile controllare con maggiore sicurezza la fecondità e al tempo stesso si è diffuso il punto di vista femminista con il suo messaggio di emancipazione, i numeri sono in crescita. Il rapporto “Famiglie, soggetti sociali e ciclo di vita” (pubblicati nel 2016) dell’Istat racconta di un 45% di donne tra i 18 e i 49 anni che non hanno figli, di cui il 22,2% non ne vuole nei prossimi 3 anni e il 17,4% non li vuole affatto. Negli Stati Uniti, per fare un confronto con una società dove il movimento childfree è presente da più tempo, tra il 2006 e il 2010 il 6% delle donne (15-44 anni) si dichiarava o era senza saperlo childfree, tra il 2011 e il 2015 il numero salì al 7,4% e poi tra il 2016 e il 2019 è cresciuta ancora al 7,6%.

Molte persone childfree, donne in particolare, giustificano la propria scelta affermando di non avere l’istinto materno. La verità è che non esiste nessuna evidenza scientifica sull’istinto materno o più in generale a una spinta naturale nell’avere figli. Si tratta però di un concetto molto vantaggioso, perché aiuta a suddividere il mondo in risorse di produzione (uomini) e di riproduzione per la produzione (donne). I motivi sono quindi altri. Per esempio la rottura della sottomissione al lavoro (fenomeno acuito dalla pandemia, dopo la quale si sono verificati boom di dimissioni volontarie) e la conquista del diritto alla scelta dell’interruzione di gravidanza che hanno permesso alle persone di determinarsi oltre il loro presunto valore biologico, naturale o sociale. Il movimento childfree sottolinea l’ovvio in questo caso, ovvero che sono tutti liberi di scegliere se riprodursi o meno e liberi di non subire lo stigma per la decisione presa.

I limiti alla natalità: la scelta oltre i soldi e al desiderio

Se non è una questione di soldi o dell’assenza del cosiddetto istinto materno e paterno, cosa spinge le persone a non incrementare il numero di nuovi nati? La volontà di non avere figli accumuna sempre più persone, anche quelle che non conoscono il movimento childfree. I motivi dietro la scelta di non riprodursi sono svariati e vanno dall’intimità alla complessa situazione globale. Una persona childfree infatti si ritrova oggi a ragionare non solo sulla propria voglia di essere “libera dai figli” (dalla traduzione inglese) e di investire su se stessa, ma anche sulle conseguenze di mettere al mondo un nuovo individuo in un contesto di permacrisi.

Le generazioni Y (o Millennials) e Z sono sottoposte alla pressione riproduttiva, ma chi è nato tra il 1980 e il 2010 guarda con diffidenza le condizioni in essere per mettere su la proverbiale famiglia tradizionale. Scegliere di non riprodursi di fronte alle tensioni militari, l’impatto della crisi climatica (eco-ansia), la sovrappopolazione, la precarietà lavorativa e abitativa diventa così una scelta politica, non solo personale e viene visto come un comportamento più responsabile.

Donne oltre la maternità: dal prestigio sociale al lavoro genitoriale condiviso

È difficile nel 2024 sostenere che il valore di una donna sia dato dalla sua capacità di diventare madre. Ci sono donne che scelgono di non avere figli, ma c’è anche chi semplicemente non può averli. Giudicare degne o difettose le persone per la loro capacità di riprodursi è gravemente ingiusto. Eppure accade e a farlo sono proprio coloro che sono chiamati a risolvere la denatalità.

Ponendo il calo demografico come un problema da eliminare per tornare a condizioni precedenti, esponenti politici o figure di spicco si sono fatti avanti per decantare la necessità di recuperare un certo prestigio sociale della maternità. All’evento “Qualità della vita 2022”, la ministra Eugenia Roccella ha detto che “la maternità non ha più valore sociale, sembra che sia solo una scelta privata e personale delle donne e dei genitori. Noi dobbiamo recuperare questo: il valore sociale della maternità e il prestigio culturale”. Roccella si fa voce di un’idea condivisa dalla maggioranza di governo e ha sottolineato più volte come la maternità non dovrebbe essere considerata un impoverimento o una forma di mancanza di libertà delle donne. La ministra insomma è rimasta al tempo in cui le donne dicevano di volere dei figli, ma per difficoltà e crisi esterne non li facevano. Una posizione valida solo se a restare inalterata fosse stata anche la voglia di avere figli, ma i dati sul movimento childfree dicono altro; e sarebbe un’idea non controversa se nel periodo 2015-2022 il 40% delle donne del mondo non avesse perso potere decisionale sul proprio corpo (fonte Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione relativi a 32 paesi nel periodo 2015-2022) in seguito a politiche riproduttive aggressive che ostacolano, tra le altre cose, il diritto all’aborto.

Poniamo che sia così, che per risolvere la denatalità basti intervenire sull’aspetto economico e imparare a riconoscere il valore sociale della maternità e il ruolo delle donne o, più in generale, delle persone fertili all’interno della collettività. Sarebbe il caso di domandarsi cosa stanno facendo il governo Meloni e i suoi rappresentanti per questi punti. Esistono dei bonus, con stretti requisiti di partecipazione e sostegni una tantum, ma mancano i posti negli asili nido, l’Iva sugli assorbenti è una tassa di lusso, acquistare una casa è un miraggio e ancora una donna in maternità rischia di perdere il lavoro.

Il peso della genitorialità è in buona parte sulle spalle delle donne, ma è vero anche che i padri sono sempre più coinvolti. In questo senso c’è bisogno di intervenire di più e meglio sul congedo parentale. È molto probabile che colmando la precarietà lavorativa e agevolando politiche di diritto alla casa si potranno aumentare i numeri relativi ai nuovi nati, senza dover per forza interferire su chi, per volontà, continuerà a scegliere di non avere figli.