Selfie, cosa dicono di noi e quanto possono aiutare la salute

I selfie possono diventare uno strumento efficacissimo, se correttamente impiegato. Ma cosa c’è dietro ad un selfie sul fronte psicologico? E come può essere utile alla salute?

Foto di Federico Mereta

Federico Mereta

Giornalista scientifico

Laureato in medicina e Chirurgia ha da subito abbracciato la sfida della divulgazione scientifica. Raccontare la scienza e la salute è la sua passione, perché crede che la conoscenza sia alla base di ogni nostra scelta. Ha collaborato e ancora scrive per diverse testate, on e offline.

Trovare una propria dimensione grazie all’osservazione di altri. Chi si è preso la briga di calcolare quanti selfie circolano ogni giorno sulle varie piattaforme è arrivato a dire, qualche tempo fa, che se ne scattano circa 9.000 ogni secondo. Per qualcuno è quasi una necessità, per condividere con gli altri il proprio essere, fino ad assumere connotati non propriamente positivi sul fronte del benessere psicologico. Così, se per un autoritratto un grande pittore poteva impiegare mesi se non anni, e se per una foto classica occorreva comunque tempo per la posa e lo sviluppo, oggi a, oltre vent’anni dal primo scatto con questa tecnica, basta davvero un attimo per cogliere un’espressione. E poi condividerla.

Ma cosa c’è dietro ad un selfie sul fronte psicologico? A questa domanda cerca di rispondere ora una ricerca apparsa su Frontiers in Communication, condotta dagli esperti dell’Università di Bamberga coordinati da Tobias Schneider e Claus-Christian Carbon.

Non tutti i selfie sono uguali

Cosa pensiamo o proponiamo quando scattiamo un selfie? Vogliamo offrire una nostra espressione o magari puntiamo solamente a far sapere agli altri dove ci troviamo e cosa stiamo facendo? Lo studio prova ad offrire una risposta che va oltre la semplice associazione immediata che chi guarda uno scatto altrui può fare, per provare a definire quali sensazioni evoca un’immagine di un volto.

Prima di tutto, gli esperti tedeschi hanno scaricato da un database (Selfiecity) un migliaio di selfie, proposti poi su sfondo grigio e in dimensioni standard a oltre 130 persone che hanno fatto la “revisione” emotiva delle immagini. Ad ogni partecipante sono stati offerti 15 selfie estratti da un algoritmo, per offrire varietà. Infine chi ha preso parte allo studio ha potuto “testimoniare” cosa ha percepito dello scatto in termini di reazione spontanee.
Ben 26 categorie sono state predisposte per valutare le risposte dei partecipanti, fino a creare raggruppamenti di sensazioni che sono diventati poi veri e propri “profili semantici”.

E parlano di noi

L’analisi dei vari gruppi di risposte ha mostrato chiaramente come l’aspetto estetico dell’immagine e lo stile che ne emerge sia solo uno dei possibili moventi valutativi, anche se ovviamente è risultato quantitativamente più ampio. Ma subito dopo, la parola chiave che gli esperti hanno identificato è stata immaginazione. E non solo in chiave di pensiero su luogo e ambiente dello scatto. Perché con un selfie, almeno questo è quanto emerge dallo studio, si può anche percepire un soffio di personalità di chi si propone alla vista.

Non solo: non sono mancati, in questi cluster di raggruppamento di percezioni legate alla vista dello scatto, anche potenziali introspezioni psicologiche da parte di chi ha guardato sull’identità del soggetto e sulle motivazioni che lo animano. In questo senso anche la prima impressione della vista di uno sconosciuto, insomma, potrebbe essere un modo per esplorarne i tratti psicologici, anche solo sulla base dell’umore percepito o dell’abbigliamento indossato.

In questo senso gli esperti hanno definito questo cluster come interessato alla “teoria della mente” quasi a significare quanto e come il linguaggio visivo possa essere una chiave di comunicazione, sofisticata ma non troppo, per mostrare qualcosa che viene da dentro di noi. Senza ovviamente parlare. Il che significa che i selfie possono diventare uno strumento efficacissimo, se correttamente impiegato.

Con un selfie misureremo la pressione

Uno studio degli esperti dell’Università di Toronto apparso sulla rivista Circulation: Cardiovascular Imaging ha valutato proprio l’impiego dello smartphone per monitorare i valori pressori. Il “selfie” della pressione si fa sfruttando una tecnica che si basa sulla possibilità di registrare con un video la circolazione attraverso la pelle, grazie ad un programma informatico specifico.

La ricerca ha valutato oltre 1.300 persone che hanno “caricato” sul loro smartphone il programma che consente la “Transdermal Optical Imaging”. Poi i soggetti sono stati valutati sul fronte della pressione arteriosa sia con un video di circa due minuti registrato con lo smartphone sia con la classica misurazione attraverso il bracciale posto sopra il gomito.
Risultato: in media la tecnologia basata sullo smartphone ha dimostrato un’accuratezza che si aggira intorno al 95 per cento per la pressione sistolica salendo addirittura intorno al 95 per cento per la minima, ovviamente in confronto alla classica misurazione del medico. Variabili da considerare: il colorito della pelle, perché se è molto chiara si rischia l’errore.

Attenzione però: lo studio è stato condotto in condizioni di luce fisse. Per questo occorre ancora misurare la pressione a casa e controllarla anche dal medico. Senza esagerare con la tecnologia.

Una app per immagini aiuterà a prevenire i tumori della pelle

Qualche tempo fa, sulla rivista Jama Dermatology, è apparsa una ricerca di grande importanza, nell’ottica della prevenzione delle lesioni cutanee e della sensibilizzazione dei giovani nei confronti delle possibili ustioni solari, per mancanza di protezione. Lo studio racconta di una app – Sunface – dedicata proprio agli adolescenti che “smanettano” sullo smartphone.
L’indagine è stata condotta su oltre 1.500 studenti in Brasile. Con la App i ragazzi hanno potuto, come per gioco, scattarsi un selfie e vedere grazie al programma una sorta di “fotoinvecchiamento” indotto dai raggi solari. Grazie a questo strumento, in particolare tra le giovani, c’è stato un netto aumento del ricorso alla protezione dal sole. La strategia psicologica, quindi, più che su messaggi di potenziale pericolo futuro, si è basata sulle immagini. E pare proprio funzionare.

Un artista che non amava i “selfie”

“Non esiste nessun autoritratto certo di Pietro Caliari, detto il Veronese”. A dirlo è Giovanni Carlo Federico Villa, studioso di pittura veneta del Rinascimento e museologo, direttore di Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica di Torino, sottolineando come non tutti i pittori abbiano voluto lasciar traccia della propria immagine, anche se in un quadro si suppone che possa essere presente anche lo stesso Veronese, che insieme a Tiziano e Tintoretto ha composto la triade capace di dominare la pittura europea del Cinquecento e divenire modello di riferimento per la modernità in pittura, l’esempio da cui prende avvio la stagione impressionista.

Villa è l’autore del volume “Veronese, un tripudio di colori” che entra a far parte della prestigiosa collana d’arte del gruppo Menarini. Un artista che, come sottolinea Villa, “nato, cresciuto e formato in una città (appunto Verona) che si appoggia ai colli e guarda la pianura, riceve umori e messaggi d’arte dalle terre lombarde ed emiliane, coltiva la classicità e sperimenta l’invenzione”. “Con Veronese prosegue il viaggio che Menarini ha cominciato nel 1956, quando è andato in stampa il primo dei suoi volumi d’arte – spiegano Lucia e Alberto Giovanni Aleotti, azionisti e membri del Board di Menarini – La ricerca di bellezza e la diffusione di cultura sono fondamenti di civiltà e di crescita collettiva e siamo convinti che arte e scienza siano un sodalizio inscindibile per il progresso e il futuro delle giovani generazioni”.

Dal selfie al pc, cosa cambia?

Visitare un museo, si sa, può rappresentare una fonte di rigenerazioni psicologica, frutto della visione di opere d’arte. Ma qualcosa di simile, potrebbe accadere anche quando guardiamo un quadro su uno schermo, anche se ovviamente l’impatto ambientale e la concentrazione possono essere diversi. Lo dice una ricerca di qualche tempo fa da esperti dell’Università di Vienna, il del Max Planck Institute for Psycholinguistics di Nimega e del Max Planck Institute for Empirical Aesthetics di Francoforte, pubblicata su Computers in Human Behavior, pare proprio di sì.

Lo studio ha preso in esame 140 persone, che hanno “visitato” sul computer una mostra di Monet. A loro, con un questionario su misura, è stato chiesto di segnalare se e come avessero gradito questa passeggiata virtuale tra le tele. Risultato: valutando la percezione di piacere riferita, parte proprio che anche virtualmente l’arte aiuti il benessere psicofisico. Pensate che si sono rilevati miglioramenti significativi del tono dell’umore e dell’ansia dopo pochi minuti di visione delle opere.

Attenzione: la reazione non è uguale per tutti, perché ci sono soggetti più sensibili all’immagine d’arte. Ma sulla predisposizione individuale nulla si può fare!