L’Armenia rompe con la Russia e strizza l’occhio all’Ue: nuova crisi in vista?

Già da anni sul filo del rasoio, i rapporti tra Erevan e Mosca scuotono il Caucaso e l'intera Eurasia. Tra annunci armeni filo-Ue e filo-Nato e la risposta di Putin. Cosa può succedere

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Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

Se si rompe una vertebra, è difficile che anche le altre restino in piedi. Devastata (ormai possiamo dire “persa”) la vertebra fondamentale della colonna strategica russa, cioè l’Ucraina, Mosca si è trovata a fare i conti con l’instabilità di tutti quegli altri territori che credeva sotto la sua diretta influenza. Oltre al Caucaso, alla Georgia e alla repubbliche etniche che fanno parte della Federazione, ora anche l’Armenia sembra volersi smarcare definitivamente dalla sudditanza al Cremlino.

La crisi diplomatica tra Mosca ed Erevan va avanti già da diversi anni, invischiata in un braccio di ferro che sembra giunto alle battute finali. Gli armeni chiedono il ritiro totale dei militari russi presenti sul territorio nazionale, mentre Vladimir Putin tuona contro l’eventualità che il Paese caucasico entri nell’Ue o, peggio, nella Nato. Il conflitto per il Nagorno-Karabakh ha sancito senza dubbio un punto di svolta, ma alla nuova postura geopolitica dell’Armenia contribuiscono vari fattori.

La “nuova” Armenia contro la Russia

Che l’Armenia si sarebbe sganciata, o comunque ci avrebbe provato, lo si era capito bene già nel 2018. Con la nomina alla guida del governo del premier Nikol Pashinyan, leader di quella “Rivoluzione di Velluto” (pacifica) che si prefiggeva come obiettivo primario la rottura con la precedente gestione di stampo sovietico, personificata dall’ex presidente Serzh Sargsyan. Entrato nelle stanze del potere ai tempi del Soviet supremo della Repubblica Socialista Sovietica Armena (1990), Sargsyan è rimasto stabilmente al timone del Paese avvicendandosi al vertice di vari ministeri e infine alla presidenza della Repubblica dal 2008 al 2018. La venuta di Pashinyan si presentava dunque particolarmente indigesta al Cremlino, anche visti i suoi dichiarati risvolti filo-occidentali.

Ma il vero turning point avvenne dopo, e coinvolse anche l’opinione pubblica armena. Dopo aver riconquistato il Nagorno-Karabakh, nel settembre 2023 il grande nemico Azerbaigian effettuò un’offensiva su larga scala bloccando già dal dicembre 2022 il vitale e strategico corridoio di Laçın. E cioè l’unico anello di congiunzione territoriale tra l’Armenia e la sua exclave nel Nagorno-Karabakh. Un colpo di mano che i peacekeeper russi avrebbero dovuto impedire, ma che invece hanno lasciato fare, attirandosi il risentimento del popolo armeno. Se i russi sono qui per proteggerci e non lo fanno, cosa li teniamo a fare? Così il governo Pashinyan ha cavalcato l’onda popolare e ha preso una serie di decisioni forti:

  • l’invio di aiuti all’Ucraina in guerra contro la Russia;
  • il congelamento (e non l’abbandono, checché ne dicano molti osservatori) dell’appartenenza alla Csto (Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva comprendente anche Tagikistan, Bielorussia, Kazakistan e Kirghizistan);
  • l’acquisto di armi dalla Francia, altro grande Paese col quale intrattiene legami storici;
  • la “cacciata” delle guardie di confine russe stanziate presso l’aeroporto di Erevan fin dal 1992.

“Non ne abbiamo più bisogno”, aveva annunciato a marzo il ministro degli Esteri armeno, Ararat Mirzoyan. Con tanto di ringraziamenti nei confronti della “controparte russa”, utilizzando così un termine davvero inedito (e non gradito) per definire la sua “sorella maggiore”. Per quanto riguarda invece le frizioni con il Csto, una sorta di “anti-Nato” a guida russa, nel gennaio 2023 l’Armenia negò lo svolgimento sul proprio territorio delle esercitazioni militari congiunte. Poco dopo Erevan si spinse ancora più in là, abbracciando una contro-esercitazione congiunta di truppe americane e armene: la “Eagle Partner” che, seppur di ridotte dimensioni, è servita a mandare un chiaro messaggio a Putin.

L’Armenia entrerà nell’Ue?

Il 9 marzo il ministro degli Esteri armeno, Ararat Mirzoyan, aveva dichiarato che Erevan sta valutando l’opzione di chiedere di aderire all’Unione europea. E quindi apriti cielo. La Russia vedrebbe profilarsi una “Ucraina 2, la vendetta”, guardando allontanarsi uno dei suoi storici alleati (per non dire satelliti) e reagendo nei modi che abbiamo imparato tragicamente a conoscere nel presente e non più soltanto a studiarli dal passato. Bruxelles, da parte sua, si frega le mani e non aspettava altro. Se l’Armenia fosse interessata a richiedere lo status di candidato, ciò potrebbe gettare le basi per una fase di trasformazione nelle relazioni Ue-Armenia”, si legge in una mozione approvata a larghissima maggioranza dall’Europarlamento. Mozione a sua volta salutata con entusiasmo dal premier Pashinyan, smanioso di compiere ulteriori passi avanti nella direzione europea.

Nella realtà dei fatti, tuttavia, l’Armenia resta lontana qualche anno luce dagli standard comunitari. In primis perché, nonostante le rimostranze e i proclami, resta ancora legata a doppio filo alla Russia a ogni livello economico e culturale. Perfino per gli stessi osservatori armeni, come il Regional Studies Center di Erevan, si tratta di pura e semplice propaganda dal duplice scopo: ridiscutere la natura dell’alleanza con la Federazione guidata da Putin e mostrare risolutezza sul fronte interno, rivolgendosi a una popolazione stanca di umiliazioni e soprusi esterni. In particolare, come accennato, gli armeni non perdonano agli storici protettori russi di non averli difesi dall’aggressione dell’Azerbaigian. Ma la dipendenza economica resta ancora inscalfibile, con l’Armenia pienamente dipendente dall’energia russa e dal commercio con quello che è il primo Paese per export. Per non parlare delle infrastrutture nazionali, de facto gestite da Mosca (La rete ferroviaria armena, ad esempio, è proprietà di Russian Railways). La sudditanza armena nei confronti della sua “sorella maggiore” è anche securitaria: oltre a ospitare una base militare russa, il piccolo Stato caucasico ospita circa 10mila soldati russi ed è sorvegliato ai suoi confini meridionali con Turchia e Iran da guardie di frontiera russe. Senza dimenticare le basi negli aeroporti di Zvartnots, Gyumri e Erebuni. Nella mentalità del Cremlino, un attacco all’Armenia equivale a un attacco alla Russia.

Oltre a non essere aperti, i negoziati per un’eventuale adesione all’Ue non sono dunque neanche pensabili al momento. Dal punto di vista più pressante, quello appunto della sicurezza, l’Occidente non offre le medesime garanzie per l’Armenia. Nonostante i progetti di riarmo e di investimenti nel settore militare, l’Unione europea non possiede un esercito e molto probabilmente non lo costruirà mai. E gli Stati Uniti, da parte loro, non sembrano affatto intenzionati a ergersi a garanti della sicurezza armena. Non solo: uno degli avversari regionali più temibili per Erevan è proprio uno Stato membro della Nato, e cioè la Turchia.

La guerra si allargherà anche al Caucaso e all’Armenia?

Il cambio di atteggiamento e postura da parte della Russia nei confronti dell’Armenia sembra tutto tranne che un preludio alla guerra. Non lo è per tutti i motivi che abbiamo cercato di analizzare, oltre al fatto che una rottura completa tra Mosca ed Erevan trascinerebbe entrambi i Paesi in una spirale pericolosissima nel loro attuale momento storico. Questo processo potrebbe subire una definitiva accelerazione soltanto se gli americani dovessero mettere piede in Armenia. E gli Usa, al momento, non sono interessati o energici al punto da prendere una tale decisione. Dall’altro lato della barricata, la strategia del Cremlino risponde a esigenze ben precise e delineate:

  • il riavvicinamento all’Azerbaigian e al suo senior partner, cioè la Turchia di Recep Tayyip Erdogan;
  • il rinnovato supporto a Israele, attore fondamentale per gli interessi russi in Medio Oriente in quanto maggiore fornitore di armi e intelligence a beneficio degli azeri, ma anche in quanto avversario della Siria “russa” di Bashar al-Assad.