La guerra di Israele contro Hamas è entrata in una nuova fase. Non è ancora la vasta e definitiva operazione di terra che da giorni campeggia sui media internazionali, ma rappresenta senza dubbio un’accelerazione senza precedenti. L’obiettivo è scardinare le posizioni dei miliziani nella Striscia di Gaza con bombardamenti a tappeto e una prima invasione di truppe terrestri.
Hamas ha già risposto alla prima ondata di attacchi israeliani, lanciando una pioggia di razzi dal territorio palestinese. L’esito di questo nuovo capitolo di questo conflitto infinito è incerto. In primis perché Israele combatte sì contro un nemico preciso, Hamas, ma deve anche fare i conti con quello che non è un soggetto geopolitico o, più semplicemente, un bersaglio individuabile entro determinati confini: il terrorismo. La “guerra al terrorismo” non è una guerra, perché non si può combattere un movimento. Si può combattere uno Stato, un esercito o un gruppo. Questa banale considerazione può determinare il successo o meno del contro-blitz dello Stato ebraico. Ecco come.
L’attacco di Israele con raid e tank: cosa è successo
Nella notte tra il 27 e il 28 ottobre, a venti giorni dall’attacco totale sferrato da Hamas, l’esercito israeliano ha condotto centinaia di raid aerei ed è entrato nel territorio di Gaza con truppe e tank. Mai prima d’ora così tanti aerei di guerra erano decollati per bombardare la Striscia, colpendo oltre 150 obiettivi dei fondamentalisti palestinesi. Il risultato è stato altrettanto clamoroso: i raid israeliani hanno causato un blackout totale delle comunicazioni a Gaza, compresa la rete internet. Un colpo potenzialmente letale per Hamas, come per gli operatori sanitari e per i civili.
Mentre l’Onu ha approvato una risoluzione per una tregua a Gaza per garantire l’ingresso degli aiuti umanitari, per la quale l’Italia si è astenuta e Israele e Usa hanno votato contro, l’offensiva israeliana si è scagliata da nord e da est mirando soprattutto a distruggere i tunnel utilizzati dai miliziani di Hamas. Intanto dalla Striscia si parla di “caos totale e ambulanze che si sono mosse alla cieca”, dirigendosi nelle aree delle esplosioni dopo averle udite e senza essere state avvertite causa blackout delle comunicazioni.
I bombardamenti sono stati sferrati con particolare veemenza nelle zone settentrionali di Jabaliya, Beit Lahiya e Beit Hanoun. Oltre ai tunnel, l’esercito israeliano ha colpito anche piattaforme di guerra e infrastrutture tattiche, uccidendo decine di miliziani. Tra questi figura anche il capo della rete aerea di Hamas, Asem Abu Rakaba, l’uomo che aveva “partecipato alla pianificazione del massacro” del 7 ottobre e aveva guidato in particolare “i terroristi infiltrati in Israele in parapendio”, oltre a essere “responsabile degli attacchi di droni contro le postazioni militari”. Le posizioni palestinesi sono state indebolite, ma non fiaccate. Hamas ha infatti annunciato che “risponderà a Israele con piena forza”, sostenendo al contempo di esser riuscita addirittura a fermare l’offensiva di terra israeliana nella Striscia e di aver causato “ingenti perdite” al nemico. Nel nord della Striscia operano forze israeliane di combattimento combinate, composte da mezzi corazzati, genieri e fanteria. Inoltre i carri armati dello Stato ebraico hanno “diretto gli elicotteri dell’aviazione verso un punto d’incontro operativo di Hamas.
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Operazione via terra, le difficoltà di Israele
Che ci sia l’Iran dietro Hamas e Hezbollah in generale, e nel concerto di questo attacco in particolare, è ormai appurato. Molti miliziani palestinesi utilizzano armi iraniane e sono stati addestrati da specialisti militari di Teheran. La Repubblica Islamica di Khamenei continua inoltre nei suoi tentativi di scoraggiare l’annunciata operazione di terra israeliana nella Striscia di Gaza, tentando anche di rassicurare il pubblico interno che “tale operazione fallirà”. La propaganda è una parte importantissima di questa guerra, come per quella d’Ucraina. Come gli armamenti, forniti a Hamas principalmente dall’Iran, ma in proporzioni più contenute anche da Corea del Nord e Siria, con silente patrocinio russo e turco. Tra gli armamenti più impiegati, spiccano i colpi da mortaio da 120 millimetri M48, prodotti in Iran dal 2007 e usate da Hamas dal 2020. Temibili anche le mine anticarro YM-3, costruite su modelli cinesi Type 72, e i razzi anticarro PG-7VR, chiaramente ispirati agli Rpg sovietici. Israele dovrà fronteggiare nuovamente anche i sistemi missilistici a guida automatica Ra’d-T, sempre di ispirazione sovietica (9M14 Malyutka), nonché missili a corto raggio come Fajr (3 e 5) e Zelzal.
Non sarà un blitz facile per lo Stato ebraico, che ha già dovuto fare i conti con il sostanziale “fallimento” di intelligence ed esercito durante l’attacco di Hamas del 7 ottobre, e che pertanto sente molta pressione addosso. Quando scatenerà l’operazione di terra nella Striscia, Israele dovrà innanzitutto fare i conti con le capacità anticarro del nemico. L’Iran e Hamas sono inoltre convinti di poter sfruttare il malcontento popolare interno allo Stato ebraico, esattamente come nelle settimane precedenti la maxi aggressione di quasi un mese fa. Il calo del sostegno del popolo israeliano, l’indebolimento delle relazioni con il mondo arabo, un alto numero di vittime militari e la forte preoccupazione dei partner occidentali per l’allargamento del conflitto possono giocare un ruolo decisivo nell’orientare le sorti dell’operazione terrestre israeliana.
Cosa succederà ora: le tre fasi della guerra
Secondo più o meno la totalità degli esperti militari, l’offensiva israeliana si divide in tre fasi principali. La prima rappresenta la risposta all’attacco di Hamas e consiste nello spianare con le forze aeree gli obiettivi nemici nella Striscia, soprattutto infrastrutture strategiche. Un’operazione già ampiamente avviata, con oltre il 50% degli edifici di Gaza, anche civili, che è stato colpito.
La seconda fase è quello che le Idf, le Forze di Difesa israeliane, hanno definito delle “incursioni”. Non solo aeree, ma anche di terra: attualmente ci troviamo nel suo preludio, cioè nella sottofase di transizione tra i raid esclusivamente aerei e la grande invasione di terra annunciata dallo Stato ebraico. A questa verranno affiancate battaglie anche nelle altre dimensioni del conflitto: cyber e spaziale. Si tratterà molto probabilmente di un’operazione mirata e non totale, che mira a “disarmare” Hamas soprattutto per quanto riguarda la dotazione missilistica e i capi militari dei fondamentalisti. Poi tutto dipende da come il gruppo palestinese risponderà a questa operazione israeliana, anche considerando gli altri due fronti a nord e a est, con gli Hezbollah in Libano e la Cisgiordania.
La terza fase riguarda infine la normalizzazione post-bellica ed è caratterizzata da una serie di interrogativi. Una volta ripulita Gaza cosa succede? Come ne uscirà Israele, se ne uscirà? Che fine faranno i circa due milioni di palestinesi attualmente presenti nella Striscia? Egitto e Giordania non hanno intenzione di accoglierli, come hanno ampiamente chiarito. L’obiettivo di Israele è la “creazione di un nuovo regime di sicurezza nella Striscia di Gaza”, con “la rimozione della responsabilità di Israele” e “la creazione di una nuova realtà di sicurezza per i cittadini di Israele e residenti” della zona. Cosa vorrà dire nel concreto, ce lo svelerà solo il futuro.