Libano, attacco totale di Israele: esplodono migliaia di walkie-talkie di Hezbollah e altri dispositivi

In tutto il Paese saltano in aria cellulari, bancomat, automobili, pannelli solari, perfino rasoi elettrici. Diversi morti e centinaia di feriti. Tutto è partito dagli scoppi durante i funerali dei figli di membri di Hezbollah

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Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

In Libano si è scatenata la tempesta perfetta. O, meglio, Israele ha scatenato la tempesta perfetta. Quasi 24 ore dopo le esplosioni in simultanea di migliaia di cercapersone in dotazione ai membri di Hezbollah, in tutto il Paese si sono registrate molte altre deflagrazioni. È la rivolta delle macchine. Stavolta a saltare in aria sono stati i dispositivi più disparati: walkie-talkie, cellulari, radio, automobili, moto, pannelli solari, bancomat e perfino rasoi elettrici.

Anche prima della nuova ondata di attacchi, erano rimasti davvero pochissimi dubbi sulla responsabilità israeliana dietro questi attacchi da remoto, che avvalorano con certezza quasi assoluta la pista dell’offensiva cyber. Dubbi spazzati via dall’ammissione dello Stato ebraico di aver avvisato gli Stati Uniti della loro offensiva a tutto campo, come certificato dalla Cnn. Ma cosa diavolo sta succedendo in Medio Oriente?

Dispositivi esplosi durante i funerali di membri di Hezbollah: perché

Nel giro di pochi minuti esplosi migliaia e migliaia di dispositivi wireless in decine di case, negozi, veicoli e strade. Perfino a Damasco, in Siria, e a Mosul, in Iraq, nelle roccaforti di altri miliziani filo-iraniani. Nell’attacco sono morte almeno dieci persone, tra cui ancora una volta bambini, o oltre tremila sono rimaste ferite. Inizialmente le notizie diffuse dai media internazionali facevano riferimento a nuove deflagrazioni degli stessi cercapersone del giorno prima. In realtà si è presto capito che si trattava di walkie-talkie, cioè di dispositivi radio personali bidirezionali utilizzati dai membri di Hezbollah. Era l’inizio della seconda fase della grande offensiva cibernetica organizzata dallo Stato ebraico contro il suo più temibile avversario regionale. Perché è importante, anche più del primo attacco del 17 settembre? Perché questa seconda ondata di violenza scatenata da remoto rappresenta la peggiore violazione della sicurezza del “Partito di dio”, colpito al cuore nei suoi ranghi e spinto al conflitto aperto, contrariamente al suo interesse (ben noto a Israele) di voler piuttosto proseguire lo scontro a bassa intensità con qualche sparuto scambio di razzi e raid nei pressi della frontiera.

Secondo fonti di intelligence, i walkie-talkie erano stati piazzati in anticipo dai servizi segreti israeliani e poi consegnati a Hezbollah come parte del sistema di comunicazioni di emergenza per i miliziani, da utilizzare durante la futura offensiva contro lo Stato ebraico. Risultato: il danneggiamento, difficilmente sostenibile a questo punto, del sistema di comando e controllo militare da parte dei fondamentalisti libanesi. Nel primo pomeriggio del 18 settembre, le prime esplosioni si sono registrate durante i funerali di alcuni figli di membri di Hezbollah uccisi nell’ondata di attacchi del giorno precedente. I video pubblicati su Telegram mostrano la folla ammassata in strada e scoppi isolati, con persone che cadono a terra e ambulanze che accorrono. Da lì gli episodi si sono allargati all’intero Libano, da Tiro a Sidone e alla Valle della Beqa’. Un gran numero di walkie-talkie erano conservati nei magazzini di Hezbollah, poiché erano destinati a essere utilizzati solo durante la programmata (non si sa quando) guerra aperta con Israele.

Un filmato in timelapse evidenzia come le esplosioni nella periferia sud di Beirut, roccaforte di Hezbollah, si siano susseguite nello spazio di pochi secondi in varie parti della città.
La pista dell’attacco calcolato, congiunto e simultaneo è stata confermata dal lancio parallelo di droni e raid israeliani sulla capitale libanese e nel sud del Paese. Tel Aviv aveva orchestrato tutto, scatenando l’offensiva lungo due direttrici: da remoto e dal cielo. Con ogni probabilità arriverà anche l’attacco terrestre, visto lo spostamento di truppe dal fronte di Gaza alla frontiera settentrionale. Forse uno dei pochi modi con cui Israele poteva sorprendere il temibile esercito di Hezbollah, il più potente della rete di milizie sciite supportate dall’Iran. Attacchi mirati e generali, per indebolire le singole cellule fondamentaliste e impedirne la coesione, per creare il panico, per lacerare ulteriormente il Libano.

La società produttrice dei cercapersone è in realtà israeliana

Dopo la prima ondata di esplosioni di migliaia di cercapersone, si era scatenata la caccia alle informazioni. Nella nebbia della propaganda e delle fake news, eravamo riusciti a risalire all’azienda produttrice dei dispositivi: la taiwanese Bac Consulting, che avrebbe a sua volta delegato parte della fabbricazione a una compagnia ungherese. Scavando più a fondo, il New York Times è riuscito a scoprire che la Bac è in realtà una società di facciata israeliana. Tre funzionari dei servizi segreti informati sull’operazione hanno dichiarato al giornale americano che sono state create almeno altre due entità fittizie per nascondere il fatto che i produttori dei cercapersone erano ufficiali dell’intelligence israeliana.

Qual è l’obiettivo dell’attacco di Israele e perché rischia grosso

Come sottolineato anche da Axios, l’obiettivo più probabile dell’attacco in Libano è convincere Hezbollah che “è nel suo interesse staccarsi da Hamas e perseguire un accordo separato per porre fine ai combattimenti con Israele, indipendentemente da un cessate il fuoco a Gaza”. Si tratta in realtà di uno scenario lontano: è vero che le organizzazioni perseguono agende proprie nello scacchiere mediorientale, ma non bisogna dimenticare che la loro strategia è orientata dalla potenza iraniana che le supporta materialmente. Il Ministro della Difesa, Yoav Gallant, ha messo in chiaro – qualora ce ne fosse bisogno – le intenzioni israeliane in un discorso presso la base dell’aeronautica militare Ramat David: “Il centro di gravità si sta spostando verso nord attraverso la deviazione di risorse e forze. Stiamo aprendo una nuova fase della guerra. Ciò richiede da parte nostra coraggio, determinazione e perseveranza. In questa fase è molto importante agire in stretta collaborazione tra tutte le organizzazioni, a tutti i livelli”.

In realtà la mossa di Israele potrebbe produrre più effetti negativi che vantaggi tattici. Innanzitutto a causa della postura annunciata dall’Arabia Saudita, che ha dichiarato di non voler perseguire più alcuna relazione diplomatica con lo Stato ebraico finché non sarà riconosciuto uno Stato palestinese. Si tratterebbe del peggiore scenario per Israele che, perdendo la normalizzazione con le monarchie arabe, subirebbe una grave sconfitta strategica. Lo stop all’avvicinamento tra Tel Aviv e Riad è infatti il grande obiettivo dell’Iran, intenzionato a distruggere gli Accordi di Abramo che sanciscono questa unione (innaturale) ebraico-sunnita.

Nell’umiliare e polarizzare in questo modo Hezbollah, Israele rischia di attirarsi l’ira e la risposta dell’esercito più potente tra quelli degli agenti di prossimità dell’Iran in Medio Oriente. Parliamo di un arsenale almeno 10 volte superiore a quello di Hamas, dichiarato sconfitto militarmente dal governo Netanyahu ma di fatto ancora attivo nella Striscia di Gaza. L’intento israeliano è sicuramente aumentare i livelli di paranoia e paura tra i ranghi di Hezbollah, nel tentativo di spingere la leadership del gruppo islamista a cambiare la propria politica riguardo al conflitto e trascinare nel caos anche il suo sponsor, cioè l’Iran. Nella pratica, la decisione di condurre il secondo cyberattacco è stata motivata anche dal timore israeliano di venire scoperti da Hezbollah nei suoi propositi: Shin Bet e Mossad hanno infatti valutato che l’indagine dei libanesi sui cercapersone bomba avrebbe probabilmente portato alla luce il sabotaggio letale dei walkie-talkie. E hanno quindi deciso di farli esplodere tutti in un breve lasso di tempo, in concomitanza con un’occasione pubblica come i funerali a Beirut e un imminente discorso del leader Nasrallah e coinvolgendo tutti i dispositivi più disparati. Puntando su effetto sorpresa e violenza.

Il disegno israeliano appare ora più chiaro e diretto verso un’altra direttrice di offensiva: quella terrestre. Il Capo di Stato maggiore delle Forze di difesa israeliane, il generale Herzi Halevi, ha approvato i piani operativi aggiornati per un’operazione al confine col Libano. Con la consueta propaganda falsamente difensiva: “Siamo determinati a creare le condizioni di sicurezza che consentano il ritorno dei nostri cittadini alle loro case e siamo pronti a fare tutto il necessario per neutralizzare qualunque ostacolo. Ci sono armi che non abbiamo ancora scatenato”. Se si dovesse scatenare un conflitto aperto con Hezbollah, per lo Stato ebraico e l’intera regione si profilerebbe un autentico disastro.

Nel frattempo cosa fanno l’Onu e gli Usa?

Oltre al fumo e ai boati delle esplosioni, il Libano ha offerto scenari da guerra civile. Nelle strade di Beirut un gruppo di libanesi ha tirato sassi contro un furgone dell’Unifil, la forza militare di interposizione creata dall’Onu. Le stesse Nazioni Unite, intanto, avevano dato sfogo alla consueta vuota propaganda, comunque significativa in una giornata di forte tensione: l’Assemblea dell’Onu ha approvato una risoluzione che chiede a Israele di “mettere fine senza indugio alla sua presenza illegale nel territorio palestinese occupato” entro 12 mesi. Il provvedimento, senza alcun effetto pratico, ha ottenuto 124 voti a favore, mentre 43 Paesi, tra cui l’Italia, si sono astenuti. Lo Stato ebraico, gli Usa e altre 12 nazioni hanno invece votato contro.

Nel testo l’Assemblea chiede che Israele “rispetti senza indugio tutti i suoi obblighi legali ai sensi del diritto internazionale“, compresi quelli stabiliti dalla Corte internazionale di Giustizia, tra cui:

  • ritirare tutte le sue forze militari dal Territorio palestinese occupato, compresi il suo spazio aereo e marittimo;
  • porre fine alle sue politiche e pratiche illegali, tra cui cessare immediatamente tutte le nuove attività di insediamento;
  • evacuare tutti i coloni dal territorio palestinese occupato e smantellare le parti del muro costruito da Israele;
  • abrogare tutte le leggi e le misure che creano o mantengono illegale tale situazione illegale.

Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha poi annunciato una riunione di emergenza venerdì, alle 21 italiane, sulle esplosioni in Libano. Il consesso è stato richiesto dall’Algeria, Paese aspramente avverso all’operazione israeliana a Gaza e, ora, anche in Libano e Cisgiordania.

La reazione di Hezbollah

La reazione, al momento solo retorica, di Hezbollah e dello stesso governo libanese non si è fatta attendere. Hashem Safieddine, capo del Consiglio esecutivo del gruppo sciita, ha detto: “Questi attacchi saranno certamente puniti in modo unico. Ci sarà una vendetta sanguinosa e unica“. Il ministro degli Esteri libanese, Abdallah Bou Habib, ha invece affermato che l’operazione israeliana rischia di essere il presagio di un conflitto più ampio in Medio Oriente. L’avvertimento pone l’accento sulla gravità dell’episodio, “perché arriva dopo le minacce sioniste di ampliare il raggio d’azione della guerra con il Libano. Il che farebbe precipitare la regione in un ciclo di violenza incontrollabile e darebbe il segnale di una guerra allargata”.

Inevitabile la minaccia dell’Iran, che promette che Israele “la pagherà cara”. Contro la maxi operazione orchestrata dallo Stato ebraico si sono schierate anche Russia e Turchia, determinate a insidiare ulteriormente la tenuta israelo-statunitense nella regione.

Si va verso l’escalation del conflitto in Libano?

Senza dubbio la mossa di Israele avvicina il Medio Oriente verso quell’escalation che, nella pratica strategica, non converrebbe a nessuno. Ma in guerra, si sa, la componente irrazionale può sparigliare le carte all’improvviso. Gli Stati Uniti, come l’Iran, non vogliono un conflitto diretto e allargato, al pari di Hezbollah. L’intransigenza dello Stato ebraico ha passato però troppe linee rosse, nella foga della missione che il governo Netanyahu si è intestata: controllare l’intera fascia di territorio che va dal Mediterraneo alla Valle del fiume Giordano. Tel Aviv è circondata dai satelliti di Teheran, ai quali è stato delegato il contenimento della grande potenza nucleare della regione.

Hezbollah fa infatti parte del cosiddetto “Asse della Resistenza” (o, secondo la vulgata occidentale, “Mezzaluna sciita”) sostenuto dall’Iran nell’area, che include gruppi armati in Iraq, Siria e Yemen. Queste organizzazioni e potenzialmente la stessa Teheran entrerebbero in gioco in caso di una guerra su larga scala in Libano, che potrebbe arrivare a chiamare in causa anche il più forte alleato di Israele, gli Usa per l’appunto. Scenario estremo e di scarsa probabilità, almeno al momento. L’escalation del conflitto non giova a nessuno e nessuno sembra volerla davvero, al di là dei proclami bellicosi. Il trasferimento israeliano di truppe terrestri al confine settentrionale sembra più un avvertimento che il preludio a una ormai non più segreta invasione del Libano. Con Washington che farà a questo punto la voce grossa e imporrà la calma, perlomeno apparente. Anche perché in Israele non tutti la pensano allo stesso modo: secondo un report dell’Ispi, a spingere per la guerra aperta in Libano è la destra ultraortodossa, coadiuvata anche da una buona metà degli ebrei israeliani. Una consistente minoranza vorrebbe mantenere lo scontro e l’aggressività contro Hezbollah sui livelli precedenti al 17 settembre.

Gli Stati Uniti, da parte loro, non ritengono che una “piccola guerra regionale” sia un’opzione realistica, perché sarà difficile impedire che si allarghi e si espanda. Tuttavia per la Casa Bianca sarà impossibile riportare la distensione al confine israelo-libanese senza prima aver concluso un cessate il fuoco a Gaza. Nonostante i proclami e le minacce odierne, Israele non avrebbe reale intenzione di invadere la parte di Libano controllata da Hezbollah. E, dall’altro lato della barricata, anche i fondamentalisti sciiti hanno tutto l’interesse a non accelerare l’inasprimento della contesa militare col nemico confinante. In altre parole a Iran e Hezbollah conviene che il conflitto resti a bassa intensità e tenga impegnato Israele a lungo, mentre dall’altra parte c’è più urgenza di inasprire i combattimenti, ma manche l’opportunità e la forza necessarie. Vedremo se questo equilibrio resisterà ancora.