Israele e Hezbollah sono in guerra, ma non vogliono l’escalation: anatomia di un conflitto

Dopo Gaza, i pesanti raid israeliani stanno devastando anche il Libano. Nel giro di 24 ore si sono registrati oltre 500 morti e migliaia di feriti, compresi bambini. Né Israele né Hezbollah hanno però dichiarato ufficialmente di essere in guerra. Cosa vuol dire

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Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

Pubblicato: 24 Settembre 2024 00:02

Il 23 settembre 2024 passerà alla storia come la giornata più buia dal 2006 per il Libano. L’inasprimento rapido dello scontro fra Israele e Hezbollah ha provocato altre centinaia di vittime fra i civili, oltre 500 in meno di 24 ore fra cui decine di bambini, e migliaia di feriti. Si tratta delle ennesime uccisioni compiute dai raid israeliani nel sud del Paese confinante.

Il conflitto fra i due schieramenti ricalca però condizioni similari a quelle del grande scontro con l’Iran che aleggia sullo sfondo. Israele e Hezbollah sono in una fase di aperto conflitto, ma sulla carta nessuno dei due vuole provocare un’escalation incontrollata. Se capiamo questo, siamo in grado di guardare a ciò che accade in Medio Oriente “con occhi non velati dall’odio”, per citare il protagonista del film d’animazione “Princess Mononoke” di Hayao Miyazaki.

Raid di Israele contro Hezbollah in Libano: cosa sta succedendo

Il Capo di Stato maggiore dell’esercito israeliano, il tenente generale Herzi Halevi, ha denominato “Frecce del Nord” l’operazione offensiva dell’esercito contro Hezbollah in Libano. In meno di 24 ore lo Stato ebraico ha effettuati massicci attacchi aerei contro obiettivi dei fondamentalisti sciiti, colpendo oltre 1.300 siti e – dicono – uccidendo “numerosi miliziani”. I raid hanno gettato nel panico i residenti nella Valle della Beqa’, nella zona orientale del Libano, scatenando la massiccia fuga di migliaia di famiglie in auto verso Beirut. Ma anche nella capitale, nel pomeriggio, le Idf israeliane hanno dichiarato di avere sferrato un attacco “mirato”. L’obiettivo, secondo fonti locali, sarebbe stato un comandante di Hezbollah, Ali Karaki, numero tre dell’organizzazione libanese. Secondo Tel Aviv sarebbe morto, mentre secondo gli islamisti filo-iraniani sarebbe rimasto soltanto ferito.

Sul fronte retorico, lo Stato ebraico ha dichiarato che il suo obiettivo nei raid sono siti di Hezbollah, ma accusa il gruppo fondamentalista sostenuto dall’Iran di avere nascosto armi nelle case dei libanesi. Per questo motivo ha chiesto l’evacuazione dei civili dal sud del Libano. In mattinata gli avvertimenti erano giunti con telefonate e messaggi, poi nel primo pomeriggio è giunto l’avvertimento delle Idf in cui si davano due ore di tempo ai civili della Valle della Beqa’ (luogo d’origine di Hezbollah, tra l’altro) per allontanarsi se ci si trovava “vicino a edifici o all’interno di case dove sono immagazzinati missili e armi”. Dopo l’intensificarsi degli attacchi, migliaia di persone si sono riversate sulla principale autostrada che collega la città meridionale di Sidone a Beirut. In serata il premier israeliano Benjamin Netanyahu, in un videomessaggio, ha chiesto ai libanesi di “prendere sul serio” gli appelli a evacuare.

I crescenti timori di escalation hanno determinato l’azione della superpotenza globale, gli Stati Uniti. Il Pentagono ha annunciato che invierà altri militari americani, parlando di “un piccolo numero di soldati aggiuntivo per aumentare le forze già presenti nella regione”. Il portavoce del Dipartimento della Difesa, il generale Pat Ryder, non ha tuttavia specificato il numero preciso delle novelle truppe. Attualmente sono circa 40mila i militari statunitensi presenti nella regione con basi in Iraq, Siria e nei paesi del Golfo Persico. Washington fa sentire la sua presenza nell’area anche tramite la portaerei Abraham Lincoln nel Golfo di Oman e la Harry S. Truman, salpata dalla Virginia alla volta del Mediterraneo.

Il messaggio di Netanyahu ai libanesi

“La guerra di Israele non è contro di voi, è contro Hezbollah”, ha tuonato Netanyahu. “Per troppo tempo Hezbollah vi ha usato come scudi umani, ha piazzato razzi nei vostri salotti e missili nei vostri garage. Per difendere il nostro popolo dagli attacchi di Hezbollah, dobbiamo togliere queste armi”, ha proseguito, promettendo ai libanesi che “una volta terminata la nostra operazione, potrete tornare in sicurezza nelle vostre case. Non aspettiamo una minaccia, la anticipiamo“, aveva spiegato poco prima.

Le dichiarazioni del leader ebraico si inseriscono nel solco strategico del suo piano per un “grande Israele”. “Il nostro è uno dei Paesi più piccoli del mondo. Si estende dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo. Quando Hamas dice di voler liberare la Palestina, intende distruggere Israele”, aveva affermato in un intervento televisivo con tanto di bacchetta e mappa digitale del Medio Oriente. In queste due brevi frasi è racchiuso il senso violento del progetto strategico sionista: controllare l’intera fascia di territorio compresa fra il mare e la Valle del Giordano. Inclusi i territori palestinesi di Gaza e Cisgiordania, dunque. Lo Stato ebraico, ha proseguito Netanyahu, è “lungo e stretto nella forma, si estende per 470 chilometri ed è largo 135. L’area totale nazionale, incluse Giudea e Samaria (cioè West Bank, la Cisgiordania) e le Alture del Golan, è di 22.145 chilometri quadrati”. Con questo discorso, l’esecutivo sionista ha lanciato un messaggio incontrovertibile che conferma la definitiva morte della soluzione a due Stati: Israele afferma la propria sovranità su territori assegnati ai palestinesi dalle Nazioni Unite. A ulteriore testimonianza, se ce ne fosse ancora bisogno, dell’inconsistenza delle organizzazioni multilaterali messe in piedi dagli Stati Uniti per diffondere i falsamente universali valori occidentali.

Un altro tassello di questo programma imperialista è rappresentato dal cosiddetto “piano decisivo” del ministro Bezalel Smotrich, ben prima di entrare nel governo. Uno dei punti del piano prevedeva l’emigrazione volontaria dei palestinesi da Gaza e Cisgiordania. Volontaria per modo di dire, visto che le intenzioni sioniste erano (e sono) quelle di indurre il trasferimento di due milioni di persone con la forza. Perché ci interessa? Perché ci fa capire un elemento che è in qualche modo sparito dal dibattito pubblico: sulla carta Israele non poteva e non può tuttora escludere ufficialmente il futuro riconoscimento di uno Stato palestinese. Circostanza che non ha però impedito quello che molti definiscono un genocidio. Già prima del 7 ottobre, il 2023 era già diventato l’anno con più morti civili a causa dello scontro fra Israele e fazioni palestinesi, soprattutto per via degli attacchi da parte dei coloni in Cisgiordania. Alla fine di agosto un’operazione militare di 10 giorni in due campi profughi, Tulkarem e Jenin, ha mostrato tutta la ferocia dei progetti israeliani. Un assedio di fatto in insediamenti di fortuna nati per necessità dopo il 1948, anno della Nakba, il tragico esodo dei palestinesi che sono stati costretti a lasciare le terre in cui vivevano da secoli. Ultimo, ma non ultimo, capitolo di una guerra che si aggrava anno dopo anno da quel lontano 1967 in cui Israele vinse il primo grande scontro, all’epoca anche contro quattro Paesi arabi al fianco dei palestinesi. Allora cominciò l’occupazione che oggi rischia di far esplodere l’intero Medio Oriente.

Israele verso un’invasione terrestre del Libano?

Lo spettro di un’operazione israeliana di terra in Libano è insomma tutt’altro che scongiurato. Il portavoce dell’esercito israeliano, rispondendo a una domanda in merito, non ha escluso questo scenario, limitandosi tuttavia a dire che “faremo tutto il necessario” per far tornare nel nord di Israele i residenti che sono stati evacuati dalle loro case dopo il 7 ottobre 2023. Cioè quando, parallelamente al conflitto a Gaza, sono iniziati gli scambi a fuoco con Hezbollah al confine libanese. Per evitare di fare favori ai nemici, un funzionario militare israeliano, citato da Associated Press, ha dichiarato invece che non ci sono piani immediati per un’operazione di terra. L’estendersi degli attacchi in Libano da parte di Tel Aviv è tuttavia in un contesto già molto complicato: i timori di un conflitto regionale totale sono cresciuti nell’ultima settimana dopo le esplosioni simultanee in Libano di cercapersone e walkie-talkie la scorsa settimana, attribuiti a Israele, e dopo il raid di venerdì su un sobborgo di Beirut in cui un comandante di Hezbollah, Ibrahim Aqil, è stato ucciso insieme ad altri membri del gruppo ma anche a civili, compresi donne e bambini.

Il ministero della Sanità libanese ha chiesto agli ospedali del sud del Paese e della Valle della Beqa’ di rinviare gli interventi chirurgici che potrebbero essere effettuati in un secondo momento, spiegando che punta a tenere le strutture sanitarie pronte ad affrontare la gestione le persone ferite nella “crescente aggressione di Israele al Libano”. “La continua aggressione israeliana al Libano è una guerra di sterminio nel vero senso del termine”, ha accusato il premier libanese Najib Mikati. Mentre da New York, dove si trova per l’Assemblea generale dell’Onu, il presidente iraniano Masoud Pezeshkian ha accusato lo Stato ebraico di voler scatenare una guerra più ampia in Medio Oriente e di tendere “trappole” per trascinarvi dentro Teheran.

Israele ha promesso che allontanerà Hezbollah dal confine in modo che i suoi cittadini possano tornare nelle loro case nel nord. E ha reso questo frangente un obiettivo della guerra nella Striscia. Hezbollah, dal canto suo, ha dichiarato che continuerà ad attaccare fino a quando non si raggiungerà un cessate il fuoco a Gaza. Una prospettiva decisamente difficile da raggiungere, mentre la guerra si avvicina al suo primo anniversario. Secondo i media israeliani, gli Stati Uniti hanno presentato una nuova proposta di accordo sulla Striscia che non prevede le tre fasi distinte com’era stato invece finora. È invece giallo sulle sorti del capo di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar: le Idf hanno riferito di non poterne né confermare né smentire la morte. Secondo la radio dell’esercito israeliano, gli ultimi messaggi inviati da lui potrebbero essere stati scritti da altri.

Che razza di guerra è questa?

Riassumendo: Israele sta bombardando obiettivi in ​​molte parti del Libano, colpendo militanti di alto livello a Beirut e apparentemente nascondendo bombe nei cercapersone e nei walkie-talkie. Hezbollah sta lanciando razzi e droni nel nord di Israele, incendiando edifici e automobili. Ma nessuno dei due parla di guerra, non utilizzano neanche il termine per descrivere costa sta accadendo da quelle parti. Esiste allora una definizione condivisa di guerra? Perché nessuna delle due parti vuole chiamarla così? Come potrebbe diventare un conflitto su vasta scala? Funzionari israeliani affermano che non stanno cercando il conflitto con gli islamisti libanesi e che questo potrebbe essere evitato se il gruppo militante interrompesse i suoi attacchi e si allontanasse dal confine. Hezbollah bazzica lo stesso campo semantico del nemico, affermando che anche loro non vogliono una guerra ma è preparato per affrontarla. E che continuerà gli attacchi contro lo Stato ebraico fino alla fine del conflitto per Gaza.

“Se qualcuno avesse detto a me o alla maggior parte degli esperti, nell’estate del 2023, che Hezbollah colpisce le basi israeliane in Israele, e che Israele sta colpendo il Libano meridionale, avrei detto ok, è una guerra totale”, ha osservato Andreas Krieg, analista militare del King’s College di Londra. Il termine non è stato ancora applicato al conflitto attuale perché “non c’è stata ancora un’invasione terrestre o un’offensiva convenzionale”, ma il metodo d’analisi potrebbe essere “sbagliato” secondo Krieg. Il dizionario anglosassone Merriam-Webster definisce la guerra come “uno stato di conflitto armato ostile, solitamente aperto e dichiarato, tra stati o nazioni”. Gli studiosi generalmente espandono tale definizione per coprire la violenza su larga scala che coinvolge ribelli, milizie e gruppi estremisti. Ma qualsiasi tentativo di maggiore precisione è complesso, poiché gli scontri armati spaziano dal confronto tra Stati coi classici carri armati e aerei da combattimento ai combattimenti di livello inferiore. Come appunto quello a bassa intensità che Hezbollah e Israele portano avanti da mesi, se non da anni.

A volte gli stati dichiarano ufficialmente lo stato di guerra, come ha fatto Israele dopo il maxi attacco di Hamas. Dichiarazione che invece non ha rilasciato nei confronti di Hezbollah, collegando di fatto i raid in Libano al grande piano del conflitto per Gaza, come fosse un’azione laterale e parallela. Il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ha chiarito meglio questo concetto, parlando spesso di una guerra in corso con l’Iran e i suoi alleati su “sette fronti”, compreso il Libano. Gli Stati spesso si astengono dal dichiarare guerra anche quando sono chiaramente impegnati in una guerra. La Russia, ad esempio, definisce ufficialmente l’invasione dell’Ucraina “un’operazione militare speciale”, mentre gli Stati Uniti non hanno dichiarato formalmente guerra a nessuno dopo il 1945, anche se hanno preso parte a importanti conflitti in Corea, Vietnam, Iraq e Afghanistan. Parte del motivo per cui né Israele né Hezbollah usano la parola “guerra” è perché entrambi sperano di raggiungere i rispettivi obiettivi senza scatenare un conflitto più ampio o venire additati come responsabili di un’escalation letale.