Come avevamo ampiamente previsto, dopo Hamas nella Striscia di Gaza il secondo fronte di guerra tra Israele e i satelliti dell’Iran in Medio Oriente è diventato il Libano dei miliziani Hezbollah. Il tanto temuto attacco diretto da parte di Teheran allo Stato ebraico, e viceversa, non si è verificato per convenienza tattica e vincoli strategici delle due potenze regionali.
Dopo quasi un anno di scontri a bassa intensità e minacce crescenti, il “Partito di dio” libanese ha dichiarato la “guerra aperta” al nemico israeliano, che ha intensificato la sua offensiva contro il Libano senza però ancora aver avviato un’invasione di terra come a Gaza. L’interesse dei due schieramenti è tuttavia ancora quello di evitare lo scontro diretto e totale. Gli eventi sono però precipitati e il rischio dell’escalation fra i due Paesi confinanti è sempre più vicino.
Hezbollah dichiara “guerra aperta” a Israele
Il vicesegretario generale di Hezbollah, Naim Qassem, ha detto che il gruppo islamista sciita è ufficialmente entrato in una nuova fase del conflitto con Israele, che ha descritto come una “guerra aperta per la resa dei conti finale”. Parole tuonate durante il funerale di un comandante di alto rango dell’organizzazione, ucciso venerdì in un attacco israeliano nella periferia sud di Beirut, e dopo le esplosioni di cercapersone, dispositivi wireless e walkie-talkie che hanno provocato centinaia di vittime in Libano. La propaganda di Hezbollah ribadisce il proposito tattico del gruppo: proseguire ad attaccare e a tenere sotto costante pressione lo Stato ebraico finché non sarà raggiunto un accordo per il cessate il fuoco a Gaza. “Abbiamo una resistenza forte e capace. Tutte le opzioni sono sul tavolo, siamo pronti per qualsiasi scenario“, ha affermato il portavoce Hassan Fadlallah.
Alle parole gli sciiti libanesi hanno fatto seguire i fatti, lanciando oltre 150 razzi verso il nord del Paese confinante. Israele “non raggiungerà i suoi obiettivi e, anzi, dovrà evacuare ancora più persone da quei territori”, ha rincarato la dose Qassem, partecipando a Beirut ai funerali di Ibrahim Akil. “Ammettiamo di essere addolorati, siamo umani. Ma come noi siamo addolorati, anche gli israeliani lo saranno”, ha proseguito avvertendo che il conflitto in corso finirà col “distruggere l’economia” dello Stato ebraico. Quanto a Benjamin Netanyahu, ha affermato ancora, “non raggiungerà i suoi obiettivi”. Hezbollah, ha assicurato Qassem, è “tornato più forte e la prima linea ne sarà testimone. L’escalation non consentirà il ritorno nelle proprie case delle decine di migliaia di persone sfollate”.
Cosa intende fare Israele
Dall’altro lato della barricata, la narrazione di Tel Aviv ha giustificato i raid di venerdì sul Libano con la scoperta di un piano di Hezbollah per l’invasione di Israele. I comandanti fondamentalisti uccisi nell’attacco su Beirut “si stavano incontrando per discutere i piani per lanciare un’avanzata simile a quella del 7 ottobre 2023, in risposa all’esplosione dei dispositivi di comunicazione usati dal gruppo”, ha riportato Al-Monitor citando una fonte del gruppo sciita. Per serrare ulteriormente la popolazione contro il nemico libanese e aumentarne la rabbia necessaria allo stato di guerra, il governo Netanyahu ha prorogato la chiusura delle scuole nel nord del Paese, cioè nelle aree colpite dai razzi di Hezbollah: Haifa, Golan, Galilea, Valle del Giordano e comunità a ridosso della frontiera. I raid dal Libano hanno costretto anche gli ospedali a fermarsi.
“Metà degli ostaggi tenuti prigionieri a Gaza è ancora in vita”, ha riportato Netanyahu, assicurando che “il governo militare non è l’obiettivo, non vogliamo annettere Gaza”. Tra il dire e il fare, però, c’è di mezzo la strategia. Quella israeliana vuole il controllo dell’intero territorio che va dal Mediterraneo alla Valle del Giordano. Dal fiume al mare, con tutto ciò che ne consegue e che vedremo presto. Diversi analisti hanno sottolineato come Netanyahu abbia tutto l’interesse nel proseguire lo stato di conflitto e dunque di non giungere a un accordo coi nemici per la liberazione degli ostaggi. Perché in questo modo può evitare di affrontare lo spettro della sua fine politica e del carcere per una serie di reati dei quali è accusato. Tutto ciò è certamente vero, ma non dobbiamo dimenticare che i principi strategici di una collettività prescindono dai loro leader, si impongono di per sé e non sono mai imposti da un singolo individuo o da un’oligarchia. È questo anche il caso di Israele.
Per sopravvivere in senso sovrano deve spezzare il contenimento militare e politico (e dunque anche religioso) costruitogli attorno dall’Iran. Per riuscirci il “piccolo” Israele deve tornare a essere “grande”, a spaventare gli avversari, a sovrapporre ciò che vuole a ciò che ha. L’invio di coloni violenti in Cisgiordania, ad esempio, risponde proprio a tale proposito. West Bank che sarà con ogni probabilità il prossimo grande teatro delle mire sioniste. L’interesse tattico è sempre e comunque quello di evitare la guerra aperta e diretta con l’Iran o con tutti i suoi satelliti. Come mostrato dallo stesso Netanyahu, che nell’ultima riunione d’emergenza non ha annunciato alcuna operazione su vasta scala in Libano.
La tattica israeliana spinge Hezbollah all’azione
Come evidenziato dall’Atlantic Council, le ostilità tra Israele e Hezbollah hanno registrato una decisa accelerazione dopo le umiliazioni subite dal gruppo islamista il 17 e il 18 settembre, con le già citate esplosioni di migliaia di dispositivi. Un colpo al cuore dell’immagine e della comunicazione dell’organizzazione filo-iraniana. Il 30 luglio lo Stato ebraico aveva inoltre assassinato il Capo di Stato maggiore di Hezbollah, Fuad Shukr. Tutti i tasselli del puzzle sembrano far apparire il disegno della provocazione: Israele vuole indurre Hezbollah a rispondere, anche con forza. Obliterata l’ala militare di Hamas, lo Stato ebraico vuole affrontare un nemico alla volta partendo dal più forte. Secondo gli analisti Hezbollah risponderà quasi certamente, ma i suoi vertici militari e politici stanno ancora cercando di contenersi per evitare una guerra totale.
Quasi un mese dopo l’assassinio di Shukr, il “Partito di dio” ha fallito nel vendicare la morte della sua guida militare. Quasi immediatamente, gli organi di propaganda dell’organizzazione hanno cercato di coprire quel fallimento, sostenendo che l’operazione era stata un successo totale. Tale sforzo è proseguito per settimane. Ancora il 12 settembre l’emittente panaraba Al-Mayadeen, legata a Hezbollah, ha citato informazioni dirette da “fonti di sicurezza europee attendibili” sostenendo che l’attacco ha ucciso 22 ufficiali e personale dell’intelligence israeliana e ne ha feriti altri 75. Un tentativo maldestro di nascondere l’incapacità o la mancanza di volontà di rispondere al nemico. Tale propaganda avrebbe potuto rassicurare la base di Hezbollah sul fatto che il gruppo era ancora in grado di eguagliare militarmente Israele. Dall’altro lato, la leadership del gruppo fondamentalista sapeva bene che la sua retorica non sarebbe stata sufficiente a dissuadere gli israeliani.
Hezbollah aveva dunque bisogno di riaffermare le linee rosse che il grande avversario non deve superare. Uccidere una figura israeliana significativa, pareggiando lo smacco subìto, sarebbe stato il modo più efficace per farlo, provocando al contempo un’invasione del Libano da parte di Tel Aviv che ne avrebbe minato ulteriormente l’immagine a livello globale. Invasione che, al di là della propaganda, Israele si è già preparato a compiere, spostando migliaia di soldati da Gaza al confine nord col Libano. E invece è ripartita la consueta salva di razzi e droni, che però stavolta sembra proiettare Hezbollah verso il conflitto diretto.