Mentre gli Houthi attaccano le navi Usa, l’Iran manovra alle spalle di Israele

I miliziani dello Yemen sono tornati a minacciare la imbarcazioni nel Mar Rosso, mentre Teheran tesse le sue trame con l'Arabia Saudita. Gli Usa, in transito verso la presidenza Trump, rivedono la loro tattica su Israele. Ma devono stare attenti

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Maurizio Perriello

Giornalista politico-economico

Giornalista e divulgatore esperto di geopolitica, guerra e tematiche ambientali. Collabora con testate nazionali e realtà accademiche.

Pubblicato: 13 Novembre 2024 01:39

Gli Houthi hanno ripreso i loro attacchi alle navi occidentali nel Mar Rosso. Questa volta non si trattava però di cargo mercantili, bersagli designati del mercato globale che la Mezzaluna Sciita vuole colpire l’Occidente economicista. Stavolta nel mirino sono finite imbarcazioni militari degli Stati Uniti.

Inizialmente i miliziani yemeniti, agenti di prossimità dell’Iran nello Stretto di Bab el-Mandeb, avevano annunciato di aver addirittura colpito la portaerei Uss Lincoln. In realtà i loro droni e missili avevano raggiunto altre due navi americane, senza provocare danni degni di nota. La mossa degli Houthi si inserisce in una più ampia tattica anti-israeliana che l’Iran sta tessendo dopo la vittoria di Trump nelle presidenziali.

Gli Houthi tornano all’attacco nel Mar Rosso

Dopo settimane di calma apparente, gli Houthi sono insomma tornati a minacciare la navigazione al largo della Penisola arabica nella loro campagna lanciata un anno fa “in solidarietà con i palestinesi di Gaza”. Il portavoce del gruppo yemenita, Yahya Saree, ha annunciato che sono state prese di mira navi americane in due diverse operazioni: la portaerei Lincoln nel Mar Arabico e due cacciatorpedinieri statunitensi nel Mar Rosso.

Il Pentagono ha confermato un attacco alle proprie navi da guerra con droni e missili, ma ha smentito che nel mirino ci fosse la Lincoln. I due cacciatorpedinieri statunitensi, ha riferito il portavoce Pat Ryder, sono invece stati attaccati mentre transitavano nello Stretto di Bab el-Mandeb, tra il Mar Rosso e il Golfo di Aden, “da almeno otto sistemi aerei senza equipaggio di attacco unidirezionale, cinque missili balistici antinave e tre missili da crociera antinave, che sono stati neutralizzati con successo”. Le navi “non sono state danneggiate e nessun militare è rimasto ferito”, ha concluso il Pentagono.

La Lincoln sarebbe invece intervenuta solo a difesa delle due navi attaccate. Nel pomeriggio il Comando Centrale americano aveva infatti riferito che i jet della portaerei avevano “supportato le operazioni contro gli Houthi sostenuti dall’Iran” nella sua area di responsabilità. La notizia si è diffusa mentre il presidente israeliano Isaac Herzog era in visita a Washington, da dove ha lanciato un nuovo monito contro Teheran e i suoi alleati. “L’Iran è l’impero del male, il motore dell’antisemitismo”, ha detto al fianco di Joe Biden.

L’Iran avvicina l’Arabia Saudita per insidiare Israele

Proprio l’Iran resta la minaccia principale del Medio Oriente per Israele e Stati Uniti. La strategia americana impone che non emerga alcuna potenza egemone nella regione, il che rappresenta precisamente il motivo dell’assistenza militare e diplomatica allo Stato ebraico. La superpotenza mediorientale, dotata dall’arma nucleare, ha il compito di contenere l’ascesa di Teheran. E viceversa, come dimostra la rete sciita costruita dalla Repubblica Islamica attorno a Israele. Rete che ora torna ad alzare la testa anche per parte di Hamas, che ha accusato direttamente gli Usa di “complicità nel genocidio” sionista in corso nella Striscia di Gaza. Ma la strategia dell’Iran va ben oltre il “semplice” contenimento militare di Tel Aviv.

L’obiettivo esistenziale della potenza persiana è la distruzione degli Accordi di Abramo, cioè della normalizzazione diplomatica ed economico-militare tra Israele e monarchie arabe. In particolare con l’Arabia Saudita, altro grande nemico dell’Iran come ben suggerisce la contrapposizione geopolitica (e molto poco religiosa, comoda maschera mediatica) fra musulmani sunniti e sciiti. Per riuscirci, Teheran ha finanziato Hamas, Hezbollah e Houthi per incrinare la reputazione di grande potenza di Israele, principale motivo per cui emiri e re del Golfo guardano allo Stato ebraico come grande protettore dalla minaccia persiana. Bene, il quadro generale è questo.

Per questi motivi l’Iran fa affari con Russia e Cina, saldando una cooperazione di comodo con imperi rivali in funzione anti-americana. E per questi motivi l’Iran ha ripreso il riavvicinamento all’Arabia Saudita, al fine di sottrarla alla normalizzazione con Israele per portarla invece dalla propria parte. Difficile, molto difficile, perché i Paesi arabi e in generale le comunità sunnite preferiscono affidarsi Tel Aviv piuttosto che a Teheran.

I sauditi sono inoltre avversari degli iraniani sul fronte Yemen, con i primi che sostengono il governo di Sana’a e i secondi che supportano i ribelli Houthi. Eppure il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi è volato in visita nella capitale saudita Riad all’inizio di ottobre, incontrando anche il principe ereditario Mohammed bin Salman. Entrambi i Paesi vogliono dare un chiaro messaggio all’Occidente, dopo il primo offerto già nel 2023 con un accordo sulle relazioni saudita-iraniane mediato dalla Cina.

Dopo che l’Iran ha attaccato gli impianti petroliferi sauditi nel 2019, Riad si è resa conto che non poteva fare affidamento completamente sugli Stati Uniti e avrebbe dovuto risolvere i problemi con l’ingombrante vicino al di là del Golfo Persico. La stabilità regionale è considerata dai sauditi un requisito imprescindibile per un’economia di successo, basata sul commercio del petrolio. L’intesa saudita-iraniana potrebbe portare a un cessate il fuoco in Yemen, anche se gli Houthi perseguono anche una loro agenda indipendente dagli interessi iraniani.

La nuova tattica americana con Israele

Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno scelto come gestire questo periodo di transizione tra le amministrazioni Biden e Trump. Stop allo sforzo (soprattutto retorico) di limitare l’intransigenza del governo Netanyahu, il cui piano prevede dichiaratamente l’annullamento di qualunque forma statale palestinese e il controllo dell’intero territorio compreso fra il Mediterraneo e la Valle del Giordano. Quello mediorientale è il fronte meno strategico per gli Stati Uniti in questo momento, e gli apparati in piana riorganizzazione verso la presidenza Trump cominciano ad apparecchiare il mondo per spostare lo sforzo militare e politico verso l’Indo-Pacifico, Taiwan e la competizione con la Cina. La tattica da privilegiare è dunque stemperare le tensioni con Israele, satellite imprescindibile per Washington, con tanto di accordo sottaciuto: Trump avrebbe comunicato a Netanyahu di “sbrigarsi a fare quello che deve fare” prima del suo insediamento alla Casa Bianca, a gennaio. Non è pertanto escluso che assisteremo a un deciso inasprimento dei bombardamenti sui territori palestinesi in questi due mesi.

Intanto, abbiamo assistito al già preventivato cambio di retorica americana nei confronti dello Stato ebraico. Per il Dipartimento di Stato, Israele “non sta violando la legge statunitense sugli aiuti umanitari” a Gaza. Propaganda e nulla più, ma significativa. Tant’è vero che nella serata del 12 novembre gli Stati Uniti hanno annunciato solennemente che non bloccheranno gli aiuti militari a Tel Aviv. Dopo la vittoria di Trump non c’è più bisogno di irretire le fasce di elettori sensibili alla causa palestinese. In più siamo vicini alla scadenza del termine posto dall’amministrazione Biden per migliorare l’accesso dei palestinesi agli aiuti umanitari. In una lettera del 13 ottobre, il Segretario di Stato Antony Blinken e il capo del Pentagono Lloyd Austin avevano dato a Israele 30 giorni per soddisfare le loro richieste, tra cui garantire che i civili abbiano accesso a cibo e altre necessità. La Casa Bianca ha messo in evidenza che ci sono stati progressi, con davvero poca sorpresa per tutti noi.