La guerra per Gaza ha già conosciuto tre cessate il fuoco e svariati piani per pace, soluzione a due Stati e retorica a iosa. La tregua (se rispettata) è un risultato fondamentale per le migliaia di palestinesi minacciati dalla condotta genocida di Israele, il quale però non rinuncerà mai alla Striscia di Gaza e alla Cisgiordania – che, ricordiamo, sono a tutti gli effetti territori palestinesi.
L’ultima proposta per risolvere un conflitto non risolvibile a tavolino è giunta dall’onnipresente, ma per niente onnipotente, Donald Trump. Il presidente americano si è intestato la paternità di un piano non redatto da lui, che non può e non deve avere contezza delle questioni strategiche della superopotenza globale. Ma allora chi ha preparato il programma in 20 punti per la pace tra Israele e Hamas? E perché?
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Dietro il piano di pace ci sono gli apparati Usa
Non lo ribadiremo mai abbastanza: Donald Trump, e in generale il presidente degli Stati Uniti, ha pochissimi poteri esecutivi. Non è un dittatore, ma soltanto un ingranaggio poco influente della macchina federale.
Tutto ciò che dichiara di voler fare, deve essere approvato dai cosiddetti apparati, cioè le agenzie dello Stato che sopravvivono mediamente a quattro o cinque presidenti. Molto spesso alcune di queste, come Pentagono o Cia, agiscono autonomamente contro il volere del presidente.
È questo il caso, ad esempio, del piano di pace per Gaza. Ammesso che Trump lo abbia anche soltanto letto, il documento è stato messo a punto da Pentagono (ora rinominato in Dipartimento della Guerra) e Dipartimento di Stato.
Per intenderci bene sul potere effettivo degli apparati, ricordate i bombardamenti sui siti nucleari iraniani sferrati da Israele e Usa congiuntamente a giugno, nella cosiddetta guerra dei 12 giorni? Bene, è emerso che Trump si fosse opposto fermamente. Eppure i caccia americani hanno partecipato, su ordine del Pentagono.
La strategia Usa oltre Trump: coinvolgere i “nemici” di Israele
L’obiettivo dei due ministeri statunitensi è duplice:
- fermare la belligeranza fuori controllo di Israele, ora grande ostacolo alla stabilizzazione della regione;
- tirare dentro alla gestione di Gaza Paesi ostili allo Stato ebraico.
Turchia su tutti, che appare così come la vera vincitrice di questi negoziati e del prossimo futuro mediorientale. Ma anche Qatar, bombardato “a tradimento” da Tel Aviv il 9 settembre (a un passo dalla maggiore base militare Usa) perché sede di una riunione dei vertici di Hamas, oltre a Pakistan e Arabia Saudita. Quest’ultima rappresenta il vero obiettivo della normalizzazione dei rapporti militari e diplomatici che Usa e Israele devono raggiungere con i Paesi arabi per strategia inalienabile.
Per convincere Riad ad affidarsi alla protezione israeliana, sono state approntate grandi forniture d’armi e difese nucleari. Ma il 7 ottobre 2023 e l’incapacità israeliana di sconfiggere i propri “piccoli” nemici in oltre due anni hanno minato questa aura da grande potenza. Così i sauditi si sono guardati intorno, cercando di distendere la situazione col grande nemico iraniano e affidandosi invece all’ombrello nucleare del Pakistan.
Ecco, tutti questi Paesi sono stati chiamati con dolo dagli Usa a partecipare alle Forze di stabilizzazione della Striscia nel dopoguerra. Tradotto: i militari turchi, pakistani, qatarini e sauditi controlleranno direttamente porzioni di territorio palestinesi, sostituendosi di fatto a Israele.
Come suggello alla tattica del “coinvolgi i nemici nella pace”, Washington ha fatto sapere a gran voce, per farsi sentire da Israele, di aver invitato la delegazione iraniana a partecipare al vertice negoziale di Sharm el-Sheikh. Beffa delle beffe per il governo guidato da Benjamin Netanyahu.
Perché Hamas non mollerà Gaza
Tra i nemici bellici di Israele c’è ovviamente anche Hamas, chiamato a partecipare all’accordo di pace anche soltanto in forma retorica. In altre parole: fingere di disarmarsi, ritirarsi, rinunciare a Gaza. Cose che il gruppo palestinese non può accettare.
E infatti, come ampiamente prevedibile, a un giorno dalla liberazione degli ostaggi ha definito “assurda” la pretesa occidentale sullo smantellamento del braccio armato delle Brigate Ezzedin al-Qassam. Per non parlare di farsi da parte sulla futura gestione della Striscia. Irresponsabile credere a questa ennesima propaganda.
A oggi Hamas non è stato sconfitto né militarmente né politicamente, ma può fingere di disarmarsi per rientrare a Gaza su successivo invito di Turchia e Qatar, garantendo un irretimento ancor più efficace delle intemperanze israeliane.
Perché Israele non mollerà Gaza
Come il partito-milizia palestinese, neanche Israele ha la minima intenzione di lasciare la Striscia. Un altro fattore che influirà sul probabile arenamento della pace (reale) è la bomba socio-politica a orologeria che minaccia il governo israeliano.
La maggioranza minaccia di sfaldarsi per le divisioni interne al Paese, la decisione di coinvolgere gli ultraortodossi nella leva militare obbligatoria e le spinte estremiste della destra guerrafondaia. Puntando sul successo mediatico del successo della prima fase della tregua, pur insufficiente a cancellare il genocidio, Tel Aviv si aggrappa per il momento alla vaghezza dei punti più critici del piano Trump.
Primo fra tutti l’assai improbabile ritiro dell’Idf dalla Striscia, dove ha già fatto mettere per iscritto che controllerà il 53% dell’enclave palestinese, nel caso dovesse risvegliarsi la belligeranza di Hamas. Tradotto: Israele si prepara a utilizzare l’ennesima giustificazione falsa per lanciare una nuova offensiva.
Il ritiro israeliano è stato ad esempio condizionato al disarmo di Hamas, che mai avverrà, e a radicali riforme strutturali dell’Autorità nazionale palestinese. Insomma, ciò che non è mai successo in decenni.
L’estrema fragilità del piano americano permette cioè a Netanyahu di rassicurare i suoi ministri di estrema destra sulla permanenza di Israele a Gaza. E, dunque, sulla rincorsa al progesso della Grande Israele.
Perché ora?
Gli Usa hanno accelerato le trattative e l’esecuzione della tregua perché Israele stava diventando imprevedibile e causa di instabilità per l’intera regione. Bombardando il Qatar, ha allontanato ulteriormente i Paesi arabi con i quali deve sottoscrivere gli Accordi di Abramo, sponsorizzati dallo stesso Trump nel 2020 e tesi a normalizzare i rapporti tra la grande potenza nucleare del Medio Oriente e le monarchie del Golfo.
Dall’altro lato della barricata, il governo Netanyahu potrebbe avere i giorni contati, e dunque spinge per chiudere il dossier Gaza con la forza per poi passare alla Cisgiordania.
Al di là della retorica e delle simboliche iniziative umanitarie, a nessun governo occidentale o arabo interessa fattivamente la questione palestinese. Il coinvolgimento di europei e mediorientali in un piano coloniale, che riconosce e concede dall’alto la libertà di autodeterminazione di un popolo, non fanno che confermare questa durissima, ma geopolitica realtà.