Stress da ufficio, il datore di lavoro deve pagare per burnout e straining

L'Organizzzazione Mondiale della Sanità parla di SLC, in riferimento al burnout: la Cassazione lo differenzia dal mobbing e costringe a pagare i danni

Foto di Luca Incoronato

Luca Incoronato

Giornalista

Giornalista pubblicista e copywriter, ha accumulato esperienze in TV, redazioni giornalistiche fisiche e online, così come in TV, come autore, giornalista e copywriter. È esperto in materie economiche.

Non conta l’ambito professionale, tutti possono ritrovarsi a dover gestire una sindrome da stress cronico causato dalla mole di lavoro prodotta. Gli impegni si accumulano, il tempo per la vita privata si assottiglia fino a sparire e il senso di responsabilità spinge a dare sempre più del dovuto. Si parla dunque di burnout, che si traduce in sintomi come: esaurimento mentale, stress fisico, calo della produttività in ambito lavorativo e privato, spossatezza, difficoltà a concentrarsi e distacco emotivo.

In Italia si parla tanto di questo tema ma lo si fa online, nel mondo degli uffici, nelle chat di chi lavora in smart working e, ovviamente, negli studi dei terapeuti. Si fa invece una gran fatica a fronteggiare la questione da un punto di vista politico. Qualcosa però sta cambiando e un primo passo verso una forma di tutela è giunto, anche se in aula di tribunale e non in Parlamento.

Burnout, responsabilità del datore di lavoro

Lo stress da ufficio, con tutte le differenziazioni possibili a seconda dei casi, rientra nel novero delle responsabilità del datore di lavoro. Questi deve garantire un ambiente sano e la tutela dei propri dipendenti, in relazione alle mansioni svolte.

Se il luogo di impiego è troppo stressante, il titolare risponde per i danni alla salute che vengono prodotti. La Cassazione ha infatti ribadito come la tutela dei dipendenti e della loro salute non può limitarsi alla prevenzione del mobbing. Tutte le condizioni di stress lavorativo rientrano nell’ampio ventaglio.

La sentenza della Cassazione

Il caso specifico, che farà di certo scuola, è quello di un lavoratore che ha deciso di portare in giudizio il proprio datore, al fine di ottenere un adeguato risarcimento dopo le sofferenze psichiche subite. In primo grado era stata accolta la sua richiesta, rigettata invece in Corte d’Appello.

La sentenza in questo caso non ha sorvolato sul clima in ufficio ma, ai fatti, non si è ritenuta evidente “l’intenzione persecutoria” dei comportamenti del datore di lavoro. Una visione strettamente legata al concetto di mobbing, dunque. Lo stress patito dal soggetto sarebbe stato frutto di una carenza gestionale e organizzativa, al massimo.

A far ben sperare per il futuro dei rapporti datore-dipendente è però la Cassazione. Ribaltata la decisione della Corte d’Appello. Secondo la sentenza, il datore di lavoro sarebbe in violazione della natura del contratto stipulato non rispettando il suo dovere di sicurezza. Si tiene conto della tutela psico-fisica del lavoratore, mai secondaria dinanzi a fattibilità economica e produttiva. Non è necessario individuare un comportamento vessatorio, infine, per poter parlare di responsabilità del datore di lavoro. Una distinzione netta rispetto ai casi di mobbing, dunque. Per rendere giustificata una richiesta di risarcimento bastano l’adozione di comportamenti, volontari o colposi che siano, che possano ledere la personalità morale del lavoratore. È questo il caso in cui un soggetto venga costretto a tollerare condizioni stressanti ben al di sopra della soglia considerata accettabile.

Al fine di riconoscere dei segnali d’allarme, è bene indicare anche degli esempi pratici di comportamento malsano da parte del datore di lavoro (oltre ai già citati sintomi psicofisici):

  • carichi di lavoro irragionevoli per mole e tempistiche;
  • assenza di un sostegno efficace e di un’adeguata comunicazione;
  • persistenza di condizioni lavorative malsane, atte a generare un clima di ansia e tensione, spesso a beneficio della produttività e, dunque, della fiscalità societaria.

Burnout e straining, cosa sono

Nel mondo del lavoro odierno ci si è ormai abituati a inglesismi e sigle di vario genere. Di tanto in tanto, però, è necessario proporre una sorta di ripasso, soprattutto nel caso di temi non ancora entrati pienamente nel gergo comune.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità parla di SLC, ovvero stress da lavoro correlato. Una condizione di malessere che travolge corpo e mente, generata da un carico di lavoro eccessivo o dalla sopportazione prolungata di un ambiente di lavoro malsano e vessatorio. Ecco, di fatto, a cosa si fa riferimento quando si parla di burnout. Altro termine da conoscere, inoltre, è “straining”, che si affianca al mobbing ma si distingue per un aspetto. Nel primo caso la condotta vessatoria subita è isolata e unica. Nel secondo, invece, è prolungata nel tempo.

Tutto ciò non viene cancellato, inoltre, dall’evoluzione del mondo lavorativo, che si avvia verso una gran diffusione dello smart working. Il clima malsano degli uffici può essere replicato anche online. Dinanzi a questo scenario, purtroppo, gli unici a non godere di alcuna tutela sono i liberi professionisti. In termini generali, infatti, sarebbero da considerare i “capi di se stessi”. Molto spesso, però, alcune categorie si ritrovano a essere meno libere e più dipendenti di quanto si possa pensare. Sottoposte al volere di clienti che si trasformano ben presto in datori di lavoro surrogati.