Licenziamento per vendetta è sempre nullo, anche per i dirigenti

La Cassazione chiarisce che il licenziamento per vendetta è nullo anche per i dirigenti. Ecco cosa cambia e come si prova l’intento ritorsivo del datore di lavoro

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

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Con la pronuncia n. 15330 del 2025, la Corte di Cassazione ha ulteriormente chiarito quale sia la via da seguire in tema di licenziamenti ritorsivi. Per farlo, ha considerato la categoria dei dirigenti, verso i quali le regole in materia sono meno protettive di quelle previste per i normali dipendenti.

Parlare di questa decisione, di grande rilievo per il mondo del lavoro dirigenziale, significa ribadire uno dei più importanti principi di tutela in tema di rapporti di lavoro: anche i manager e i capi, solitamente esclusi dalle tutele di tipo reintegratorio, hanno diritto a riprendersi il posto quando l’espulsione sia determinata da un motivo illecito.

Vediamo da vicino la vicenda concreta e la decisione della Suprema Corte, in modo da capire quando il licenziamento sia da considerarsi effettivamente nullo, perché inflitto per mera volontà di vendetta.

Il caso, dal licenziamento al ricorso in Cassazione dell’istituto di credito

Come emerso dai fatti di causa, un dirigente – direttore centrale di una banca – era stato incaricato di gestire un processo di risanamento aziendale. Nello svolgimento del compito non si era, però, limitato a seguire gli ordini dei vertici, spingendosi oltre nel segnalare criticità e resistenze interne alle novità. Il comportamento aveva determinato l’ostilità dei “piani alti” dell’organizzazione aziendale, che avevano finito per valutare “scomoda” la sua presenza, pur con un ruolo di alta responsabilità.

Così prima era isolato professionalmente e licenziato qualche tempo dopo, facendo pesare nei suoi confronti addebiti disciplinari che i giudici hanno poi definito palesemente privi di fondamento. In sintesi, le accuse riguardavano un presunto utilizzo eccessivo dell’auto aziendale e abusi nei permessi per malattia.

Come accertato dal giudice di primo grado e dall’appello, tutto l’impianto disciplinare è risultato privo di consistenza. La magistratura – nell’ambito del più veloce rito Fornero – aveva perciò sancito la nullità del recesso nei confronti del dirigente di banca, per il motivo illecito.

Il giudice di secondo grado, in particolare, ha voluto la reintegrazione del dirigente ai sensi dell’art. 18, commi primo e secondo dello Statuto dei lavoratori. La banca, però, non si era arresa all’esito processuale, rivolgendosi alla Corte di Cassazione con ricorso.

Il principio di tutela affermato dalla Cassazione

La Suprema Corte ha sostanzialmente ribadito la correttezza del ragionamento logico-giuridico dei giudici d’appello, e confermato che il licenziamento per vendetta è nullo ai sensi dell’art. 1345 del Codice Civile, perché atto scaturito da un motivo illecito.

Nella sentenza si può, infatti, leggere che per consolidata giurisprudenza (tra cui Cass. 12169/2024):

L’ipotesi dell’atto di licenziamento che rappresenti “l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito (diretto) o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione (indiretto), che attribuisce al licenziamento il connotato della ingiustificata vendetta” (cfr. Cass. n. 17087 del 2011; Cass. n. 24648 del 2015), è riconducibile all’istituto codicistico dell’atto nullo perché determinato da un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., con riconoscimento legislativo espresso nel comma 1 dell’art. 18 S.D.L. novellato che riserva ad esso la più ampia tutela.

Nel caso specifico, la volontà di licenziare il dirigente non è stata motivata da ragioni oggettive o disciplinari, rappresentando una reazione ingiusta, arbitraria e del tutto sproporzionata alle sue denunce interne durante l’attività di risanamento.

Giusta, quindi, la reintegrazione del lavoratore senza distinzione di qualifica, pur in un sistema in cui, normalmente, i dirigenti non godono della tutela reale dell’art. 18, poiché legge e contrattazione collettiva riconoscono ai datori una maggiore libertà di recesso.

L’onere della prova è un compito difficile per il lavoratore

Attenzione però, perché la Suprema Corte spiega anche che il motivo illecito che rende nullo il licenziamento c’è quando l’intento di vendetta del datore è la sola ragione effettiva del recesso. E qui c’è un nodo importante: la prova della vendetta grava interamente sul lavoratore.

Egli deve dimostrare che l’intento di rappresaglia è stato l’unico e determinante elemento che ha spinto l’azienda al licenziamento. In casi come questo, non esistono quasi mai prove schiaccianti – come documenti, mail o dichiarazioni dirette – che dimostrino in modo esplicito la ritorsione.

Il lavoratore è così costretto a costruire la prova per presunzioni, cioè attraverso indizi e circostanze oggettive (come la tempistica del licenziamento, l’inconsistenza delle accuse, il precedente comportamento corretto del dipendente, le eventuali testimonianze in aula ecc.) che, valutati insieme, portano il giudice a dedurre logicamente che:

  • le accuse disciplinari sono del tutto infondate;
  • il vero motivo del recesso è una rappresaglia e non una ragione valida e ammesso dalla legge.

Nel caso concreto che qui interessa, i giudici di merito hanno ricostruito correttamente il percorso logico-deduttivo che portava al licenziamento ritorsivo, così come verificato dalla Cassazione.

Cosa succede al datore di lavoro

In ogni caso, la dichiarazione di nullità del licenziamento porta a pesanti conseguenze economiche per il datore di lavoro. Infatti, oltre alla reintegrazione in ufficio, quest’ultimo deve:

  • risarcire tutte le retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento fino alla reintegrazione (non inferiori a 5 mensilità);
  • versare i contributi previdenziali e assistenziali per tutto il periodo;
  • pagare le sanzioni civili previste per l’omissione contributiva (come stabilito da Cass.  19665/2014).

Ma attenzione perché, se il lavoratore non vuole tornare in azienda perché magari ritiene l’ambiente ormai “tossico” – e teme magari un possibile burnout – può optare per un’indennità sostitutiva pari a quindici mensilità.

Che cosa cambia e quali sono le situazioni tipiche di un licenziamento ritorsivo

Con la decisione n. 15330 di quest’anno, la Cassazione è molto chiara: quando il licenziamento disciplinare è inflitto per rappresaglia, cioè animato da un fine illecito, la libertà di recesso cede il passo alla tutela dei diritti fondamentali del lavoratore (Cass. 741/2024).

Il principio in oggetto è stato già fissato da precedenti decisioni della Suprema Corte (tra cui Cass. n. 26395/2022 e Cass. n. 6838/2023) e trova oggi un importante conferma anche per la categoria dirigenziale.

Ma, al di là dei fatti di causa sopra richiamati, un licenziamento per rappresaglia si ha – sempre – quando il datore di lavoro reagisce in modo punitivo a un comportamento legale del dipendente. Tra i casi più frequenti, menzioniamo ad es. l’avvio di un contenzioso giudiziario da parte del lavoratore, la denuncia di irregolarità aziendali o di violazioni normative, oppure – ancora – la partecipazione ad attività sindacali.

Concludendo, il messaggio è chiaro: la libertà imprenditoriale non può mai spingersi fino a punire comportamenti leciti o critici costruttivi del lavoratore. Per le aziende, la sentenza è un invito a una gestione del personale più trasparente e conforme ai principi di buona fede. Mentre, per i dipendenti, la pronuncia della Corte dà un segnale di fiducia nella tutela giudiziaria contro gli abusi di potere.