Un bacio non richiesto può costarti il posto di lavoro, la sentenza

Un'avance fa rischiare il licenziamento in tronco. La Corte d'appello di Torino ribalta una sentenza e chiarisce quando un singolo gesto diventa molestia punibile con la perdita del posto

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Claudio Garau

Editor esperto in materie giuridiche

Laureato in Giurisprudenza, con esperienza legale, ora redattore web per giornali online. Ha una passione per la scrittura e la tecnologia, con un focus particolare sull'informazione giuridica.

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Nei rapporti di lavoro bisogna stare molto attenti a non superare quel confine che separa i gesti cortesi o amichevoli, dagli atti che possono costituire una molestia e un’indebita “invasione” dello spazio personale e della più intima sfera di affettività.

A ricordarlo è una recente sentenza, la n. 150, con cui la Corte d’appello di Torino ha condannato per molestie un dipendente che si era “allargato” e si era preso la licenza di baciare la collega, all’improvviso, senza consenso e con un gesto che non ha ottenuto l’effetto sperato.

Vediamo più da vicino la vicenda e la decisione, perché la magistratura ha offerto utili chiarimenti in grado di orientare i comportamenti di tutti i dipendenti, e soprattutto di quelli che vivono.. un'”infatuazione” d’ufficio.

Il comportamento contestato e l’inaspettato esito del primo grado di giudizio

In preda a uno stato di ubriachezza, un lavoratore assunto come addetto alla reception in un edificio universitario si era ingiustificatamente allontanato dalla propria postazione, dopo avere partecipato alla festa di pensionamento di un collega.

In particolare – si evidenzia nel testo della sentenza d’appello che richiama i fatti di causa – l’uomo aveva attuato gesti di molestia fisica nei confronti di una dipendente, abbracciandola e baciandola sulla bocca contro la sua volontà, ma anche formulando sgradite frasi di apprezzamento nei suoi confronti.

Da questi fatti derivò il licenziamento in tronco dell’uomo, che contestò la decisione con un’azione legale. Sorprendentemente, il tribunale ritenne infondata e non provata la giusta causa disciplinare, avendo attribuito scarsa credibilità alla testimone-vittima, sulla scorta del comportamento immediatamente successivo agli atti di molestia (ritardo nella segnalazione e non tempestiva richiesta di aiuto).

Al contempo, il primo giudice non ritenne configurabile un abbandono del posto di lavoro così rilevante, da applicare – sul piano sanzionatorio – quanto previsto dal Ccnl di riferimento.

Inoltre, in primo grado, fu accolta la domanda di annullamento del recesso del datore di lavoro:

a fronte della sua natura ritorsiva (a ‘punizione’ di pregresse pretese retributive), con reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro.

L’uomo beneficiò così di un provvedimento a totale suo favore. La dipendente contesto però la decisione, facendo appello.

Le norme applicate dal giudice d’appello e le conseguenze per il dipendente molestatore

In secondo grado, con la citata sentenza n. 150 il magistrato incaricato ha sostanzialmente ribaltato l’esito della prima decisione e riformato la pronuncia. In particolare, spiega questo giudice, alla condotta va applicato quanto previsto dall’art. 26, comma 2, d. lgs. n. 198/2006 – il noto Codice delle pari opportunità uomo-donna – secondo cui sono:

considerate come discriminazioni le molestie sessuali, ovvero quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.

Non solo. A inchiodare il lavoratore alle sue responsabilità c’era anche l’art. 48, par. b), Ccnl Multiservizi (illecito disciplinare), idoneo a giustificare il licenziamento in tronco per la rottura del vincolo fiduciario.

La nuova ricostruzione dei fatti di causa e il rilievo della testimonianza della persona offesa

A fare la differenza, è stata l’accurata nuova analisi dei fatti di causa e la critica al ragionamento effettuato dal primo giudice, che non aveva tenuto in adeguato conto tutti gli elementi, giungendo peraltro a conclusioni non pienamente aderenti alla tutela della lavoratrice.

In particolare – ai fini della conferma della legittimità del licenziamento disciplinare – decisiva è stata proprio la testimonianza della persona offesa, ritenuta dal secondo giudice attendibile pur se offerta in modo “singolo”.

Infatti, il racconto della donna era coerente, minuzioso, non calunnioso e ricco di riferimenti alla condotta impropria dell’uomo, tanto da inchiodarlo alle sue responsabilità per molestie sessuali. E, ai fini dell’attribuzione della responsabilità, lo stato di ebbrezza non poteva essere una valida “scusante”.

In sostanza, è stata ritenuta sufficiente questa deposizione per dare la prova dell’accaduto, perché – si legge nella sentenza d’appello:

si tratta, oltretutto, di un’ordinaria causa civile, in cui (a differenza del processo penale, ove, per via dei diversi valori in gioco, si reputa di norma opportuno che la testimonianza della persona offesa trovi una qualche corroborazione esterna) la deposizione di un teste è di per sé sufficiente quale prova dell’accadimento ‘storico’ di un determinato fatto.

In altre parole, è legittimo il licenziamento disciplinare disposto nei confronti del lavoratore, rivelandosi determinante a titolo di prova la mera testimonianza della donna. E ciò senza bisogno di ulteriori elementi di prova e riscontri esterni, così come invece avviene nel processo penale.

Al contempo, il giudice dell’appello bocciò la tesi che considerava le citate eventuali finalità ritorsive del datore. Esse, anche laddove fossero presenti, erano “superate” dalla gravità del comportamento dell’uomo, che aveva molestato la collega e andava punito – sottolinea il giudice d’appello – con la massima sanzione disciplinare.

Che cosa cambia

La sentenza in oggetto è molto importante perché affronta un tema di stretta attualità, ossia le molestie e gli atti che superano quel sottile confine di riservatezza e assenso, anche nei rapporti di lavoro.

Può essere licenziato in tronco il dipendente che si sia reso autore di molestie sessuali in ufficio, anche alla presenza di un unico testimone, la persona offesa. Come visto sopra, di volta in volta saranno gli elementi fattuali a fare la differenza e a stabilire la responsabilità del capo o del superiore. La testimonianza deve però essere considerata credibile e coerente con la documentazione in corso di causa.

Interessante notare che la tempestività della denuncia fatta all’azienda è un elemento da valutare con elasticità. Infatti, il giudice d’appello ha spiegato che – anche se la vittima non si attiva immediatamente per segnalare il comportamento dell’aggressore – chiedendo subito aiuto al personale di sorveglianza, ma avvisa la società solo qualche giorno dopo l’evento, la responsabilità del molestatore rimane. La gravità dell’evento non è quindi esclusa e, anzi, in casi come questo è accertata in tribunale.